dal sito http://www.genovafoto.it

Atlantide..il mondo perduto, una civiltà straordinaria inghiottita dai flutti.  Immagini apparentemente sfocate, ma vivide nei nostri cuori, affiorano dai gorghi del passato e si insinuano in un presente ostile che ci sconforta. Le lettere da Atlantide esprimono dunque il modo caldo, sognante e dolente di concepire il calcio dei Druidi e dei loro amici. Sono gli scritti di tutti coloro che si sentono vicini al nostro spirito, non importa quanto lontani nello spazio e nel tempo.

Questa è la palestra dei sentimenti, l'essenza dello spirito druidico.

Inviateci dunque a webmaster@druidi.it brandelli della vostra anima e con essi sarà intrecciato il filo della nostra memoria.

 

  Sommario:

Addio Professore

Franco Scoglio nel Walhalla

Sono genoano

Sognando Itaca

Al Righi

 Buona la prima  

  Lividi e rimedi  

 La macchina del tempo

Genoa d'Oltralpe

MASSIMO DONELLI: "Per il Grifo rivincita nella "A" francese"

 Blade Runner  

Un cuore grande così

Oooooohhhhhhhhhh

 Wimbledon    

AIACE e il GRIFONE

La RISPOSTA di AIACE

Divagazioni:BRITISH ZOLA

I Luoghi della memoria

L'appetito vien mangiando

Il tempo è galantuomo !!  

Amico Fragile

 11 gennaio 2005

Druidi e Frilli

Abbadie

 

1) Futuri ricordi 2) Spalazzi, Manera.. 3) Il tempo perduto
4) Confessione  5) Allo stadio con papà   6) Anima  
7) Era il 1963    8) A tempo scaduto  9) Dall' 1 all' 11 
10) L'abito della festa  11) A Vincenzo Torrente  12) Lamento per la Nord 
13) Il giorno in cui il calcio morì 14) Il giorno in cui il calcio risorse 15) Gianluca Signorini
16) Il Natale dei Druidi 17) Da Campetto a Trasta 18) Gli Ombrelli della Memoria
19) Una domenica al Righi  20) I campioni siamo noi 21) Il Figlio della Nord

22) L'uomo del Fiume

 23) E' finito un ciclo

24) Fiumi e torrenti

25) Cosmici e torrentizi

 26) Cosmologia

 27) Un fiore nella Nord

28) Juan Carlos Verdeal

 

 


 

Futuri ricordi (di Cecco Angiolieri)

  Perché,  a Genova, da queste parti, è diverso che altrove, ed anche una squadra di calcio può essere di più, molto di più di quello che ad un “foresto” potrebbe sembrare: come il Genoa, la squadra più antica d’Italia, che qui nell’anima e nel cuore dei Genovesi assume significati molto più estesi e muove sentimenti  molto più profondi di quelli che, in teoria, dovrebbe suscitare una pur gloriosa squadra di calcio.

Ma qui, come dicevo, tutto è diverso e il passato è un’eredità che ti abitui a respirare  insieme all’odore di salmastro e allo scirocco, che nelle giornate di “maccaia” penetra nei tuoi carruggi e nelle tuo ossa, regalandoti umidità e nostalgia.

Qui, più che in qualunque altro posto, si ha il sentimento del tempo che passa inesorabile e travolge tutto, senza che i monti dietro la città possano fermarlo, come fermano il vento di mare, facendolo trasudare di pioggia.

E siccome il tempo non lo si può comunque fermare, qui la gente, come i monti con il vento, il tempo lo fanno trasudare e ne distillano tradizione e nostalgia.

Qui  la tradizione è sacra; i Genovesi, quelli veri, amano il Genoa, simbolo  - in ambito sportivo ma non solo - delle proprie radici, come e più di se stessi, lo amano incondizionatamente, tacciono persino le sue qualità e ne esaltano  i difetti, quasi a voler sfidare il banale senso comune per cui  una squadra di calcio è valida ed “appetibile” proporzionalmente ai risultati sportivi che ottiene: il giorno che il Genoa dovesse diventare una squadra vincente, ne sono sicuro, mi sentirei in un felice imbarazzo.

Sono Genoano di quarta generazione: mio nonno (ragazzo del ’99 nella I guerra mondiale), presa la passione del  Grifone da suo padre, (che aveva visto nascere la squadra nel 1893) trasmise l’irragionevole sentimento a mio padre, il quale nel 1954 incontrò nella mitica gradinata Nord, una ragazza altrettanto genoana che due anni dopo sarebbe divenuta sua moglie: mio figlio (quinta generazione) a 12 anni, già da tempo soffre in rossoblù

Papà mi è mancato, sono solo sei mesi fa: se ne è andato con una  cravatta rossoblù al collo, la sua genoanità è stata ricordata persino in un commosso e commovente  necrologio e in chiesa, non so perché, nel dolore ho fissato a lungo un cuscino di fiori rossoblù posto da amici Genoani  accanto a lui, a ricordare la sua passione.

E di storie come questa mille e mille altri Genoani potrebbero raccontarne: in altre realtà tutto questo apparirebbe esagerato, stonato, e persino privo di buon gusto, ma a Genova no, a Genova è diverso: il Genoa non è una squadra, è una modalità dell’esistenza .

E siccome, nonostante tutto, il tempo imperterrito si ostina a passare anche a Genova, quasi per farci dispetto, anche qui, intorno alla vecchia città hanno costruito un nuovo  centro moderno, uguale a quello di mille altre città, con i dovuti giardini di plastica, come quelli di mille altre città, e dalla periferia è stata costruita anche una  nuova altra squadra di calcio, come quella di mille altre città.

Avrebbe tranquillamente resistito il mio Genoa a tutto questo, se non fosse che oggi siamo ostaggio di un presidente, tale Dalla Costa, che dopo una sciaguratissima conduzione, tragicamente coerente  con quella del suo predecessore,  ci ha portato sull’orlo della bancarotta ed oggi tratta il Grifone con meno rispetto di quello che avrebbe  un crocefisso nell’ufficio di Stalin.

Forse è ancora più terribile la minaccia che incombe a causa di un tal Garrone Duccio, di mestiere “noto petroliere ed imprenditore” il quale, pur non essendosi mai occupato prima di sport che fossero diversi dalle battute di caccia nei suoi possedimenti, ha acquistato ora l’altra squadra di calcio, e vuole abbattere il nostro glorioso e storico stadio per fare giocare tutte e due le squadre in una lontanissima periferia, a Trasta, in uno stadio che lo stesso petroliere vorrebbe costruire in una località che è così triste che non ci possono fare neppure l’ipermercato, perché, i depressi statisticamente non comprano abbastanza.

L'operazione, naturalmente, è chiaramente finalizzata, oltre che a far guadagnare un sacco di soldi al  Garrone – costruttore, ad una successiva e a quel punto “inevitabile” fusione tra le due squadre.

Insomma a me, e, soprattutto, a mio figlio vogliono strappare il Genoa, vogliono strappare il cuore, vogliono strappare la memoria, vogliono strappare le radici:  vogliono davvero strappare l’unico pezzo di calcio “vero” che è rimasto in Italia, forse nel mondo.

Nella lingua Genovese il Genoa viene chiamato “ U Zena”, esattamente come, i Genovesi, nella loro lingua, chiamano “Zena “  Genova, la loro città, e tutto questo non è un caso.

E allora io, con tutta la forza di cui sarò capace, urlerò no, no e poi no, e lo urlerò ancora più forte per la mia città, e lo urlerò due volte più forte per mio figlio: NO, NO, NO.

E chiedo a tutti di voler amplificare questo mio no, di far conoscere a tutti quello che io, come decine e decine di migliaia di Genoani  devo patire: perché nessuno deve potersi permettere, per ragioni di suo particolare gretto interesse, di toccare le mie radici, i miei affetti i miei ricordi, e mai, soprattutto, mai  nessuno deve potersi permettere di rubare a  mio figlio uno solo dei suoi futuri ricordi. 

                                               

                                                                                                Cecco Angiolieri  

 

 

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Spalazzi, Manera... (di Danilo).

 

Spalazzi, Manera, Ferrari F., Maselli, Rossetti, Garbarini, Perotti, Bittolo, Bordon, Simoni, Corradi.

 Era la formazione del Genoa nel campionato nazionale di Serie B 1972-73…

 Qualcuno mi sa dire perché me la ricordo ancora a memoria a distanza di trent’anni, quando faccio fatica a ricordarmi quelle degli ultimi 2-3 campionati??

 Possono essere valide decine di risposte ed in ognuna di loro, senz’altro, si nasconderebbe una piccola parte di verità.

 Personalmente credo che il motivo di questo ricordo indelebile, oltre che da motivi contingenti legati alla giovane età J, è che il calcio di allora era un calcio più vero.

Tutta un’altra cosa rispetto a quel baraccone multicolore spalmato su 7 giorni 7, infarcito di nani e ballerine, sempre alla ricerca della polemica, del clamoroso, dello scandalo. Non ne posso più di rose oceaniche, di calciatori-azienda circondati da manager, procuratori, personal-trainer e quant’altre figure che con il *vecchio* spogliatoio non hanno niente a che fare.

 Quelli che ho citato all’inizio erano i miei *miti* giovanili e come tali sono senz’altro portato a sopravalutarli, ad idealizzarli troppo, ma mi piace ricordarli come atleti, come uomini e soprattutto come una squadra; non come una delle tante holding presenti sul mercato, che solo marginalmente si interessano di calcio.

 Certamente sono io fuori sintonia, certamente mi si può obiettare che il mondo va avanti, che è inutile uggiolare come un cane alla luna illudendomi di poter ritornare indietro, ma provarci costa poco, mi sembra di essere in buona compagnia e la speranza che altri possano aggregarsi strada facendo non mi sembra un miraggio.

                                                        Danilo

 

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Alla ricerca del tempo perduto (di Principe Myskin)

 

Se risalgo nella memoria, non riesco a stabilire né quando, né come, né
perché sono diventato Genoano.
Se penso al Genoa, però, la mente mi si affolla di ricordi e si confonde. Mi
si affaccia l'emozione che provavo a sentire raccontare i racconti del mio
leggendario nonno, di cui porto il nome e che non ho mai conosciuto, perché
morto 11 anni prima che nascessi. Il nonno che aveva rischiato le botte a
Bologna per o Zena. Il nonno che era andato a veder "giocare al pallone" a
Wembley nel 1934 ed era tornato dicendo che di "arroganti come gli inglesi
non aveva mai visto nessuno".
Oppure un vecchio apparecchio per la filodiffusione (da restare fulminati se
cercavi di regolare il volume), dispensatore di croci e delizie, compresa
quella volta (ma che anno sarà stato mai ?) che il radiocronista del derby,
caso unico, per quanto ne so, aveva annunciato per errore il gol del Genoa,
quando invece avevano segnato i ciclisti, gettando tutta la famiglia nello
sconforto con la sua rettifica al collegamento successivo.
E che dire di quei pomeriggi di domenica sugli spalti di via Carso, da dove
vedevi non più di un terzo del campo, e i giocatori piccoli come formiche,
se usavi il binocolo. Con mia mamma silenziosa a cercare di capire se,
almeno, stavamo attaccando. Unico bambino in mezzo a tanti nonni. E' stato
lì, quando in un Genoa - Juventus, mi pare, abbiamo tutti immaginato, voluto
e maledetto di intravedere, oltre la miopia e la foschia, Corso battere un
rigore e sprecarlo. E' stato lì, quando ho visto i visi impietriti di tutti,
quasi a dire "lo sapevamo, non poteva che essere così", che ho incominciato
a capire cosa sono i Genoani e cosa sono io.
Mia mamma, già. Temutissima docente di Fisica. Che, al goal di Tomas in
Genoa - Oviedo aveva costretto i vicini ad accorrere per cercare di capire
se veramente un cinghiale ferito si era asserragliato nel mio salotto, e per
scoprirla, ebbra di gioia, che ruzzava intorno al tavolo rotondo, rantolando
un "sìììì, sììììì" baritonale...
E mentre il tempo scivola via dalle dita e pensi a tutte le facce che non
vedrai più, ti conforta, come un po' di zucchero in fondo alla tazzina,
pensare che, in fondo, ci sarà sempre qualcuno come te, che non riesce a
fare a meno di perdere tutto il fiato, per parafrasare Aldo Grasso, a
inseguire una palla, che rimbalza qua e là, quasi mai dove vuoi tu, e, in
fondo, pensa che è meglio così..."

Principe Myskin

 

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Confessione (di Aglaja)

"Don Francuzzo, mi confessi..."
"Sì, figliola, affettuosamente. Quale peso grava sulla tua coscienza?"
"Padre: non nacqui genoana. Il mio percorso verso la fede fu lungo e
tortuoso"
"Beh, vedi di non farla tanto lunga (assolutissimamente) e racconta."
"Deve sapere che vidi la luce a Savona, città prevalentemente interista, con
propaggini ciclistiche.
Il calcio mi piacque fin da piccina e in casa c'era un nonno che, pur
tifando
tiepidamente per il Savona, seguiva tuttavia alla domenica sera la
registrazione del secondo tempo delle partite di serie A sul Primo Canale
(preistoria, Padre, preistoria). Mi entusiasmai per la grande Inter di
Herrera (a tre anni il mio amico invisibile era Sandrino Mazzola...) e
divenni tifosissima nerazzurra, indifferente sia alla squadra di Genova che
a quella della delegazione.
La luce mi apparve al ginnasio. La IV A era nota come la sezione del
Cerbero: tale personaggio era un omone grande e grosso, di Genova, alle
soglie della pensione. Insegnava italiano, storia, geografia, latino,
greco...Genoa. Eh sì, era un tifoso sfegatato che, tra un aoristo e un
piucchepperfetto, un Leonida e un Augusto, trovava modo di illustrarci come,
se si parlava di storia nel calcio, bisognava parlare di Genoa. Ma la
trappola in cui attirò me ed altre mie compagne fu (lo devo ammettere) un
vero e proprio ricatto: se alla domenica il Genoa avesse vinto o pareggiato,
al lunedì non ci sarebbero state interrogazioni; se avesse perso...strage!
Fu così che iniziammo, alla domenica pomeriggio, a seguire la radiocronaca
delle partite del Grifo per sapere se dovevamo o meno prepararci per il
lunedì. Quell'anno non fu un bell'anno: il Genoa, che era appena risalito in
serie A, risprofondò con il Doria (se non ricordo male penalizzato) in B.
Giocava Corso, uno dei miei idoli dell'Inter, che però ben presto si ruppe
(credo) un ginocchio.
C'erano Maselli e Perotti, Pruzzo e Corradi...L'anno seguente la storia
continuò (finimmo a metà classifica, mi sembra) ; io conclusi il Ginnasio e
il professore la sua carriera (andò in pensione e morì poco tempo dopo). Ma
il tarlo ormai era in me e lavorava: continuavo a seguire le sorti del Grifo
anche senza minacce di interrogazioni, diventando sempre più rossoblu.
E poi..."
"Su, figliola, concludi, che poi devo passare in rassegna tutti i peccati
del Dottore Cernia..."
"Sì, don Francuzzo, concludo in due parole: incontrai un genoano sfegatato
che finalmente mi fece fare il battesimo dello stadio. Dopo qualche anno
battezzammo anche un grifoncino...ma questa è un'altra storia..."
"...e tutti i Grifi finiscono in gloria. Vai in pace, figliola: la tua fede
ti ha salvato (dal diventare ciclista). Assolutissimamente e
affettuosamente: Amen! "

Aglaja

  

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Allo stadio con Papà (di Liaigh)

Gran parte di noi ha iniziato ad andare allo stadio con Papà, una mano a lui, la bandierina nell'altra, il cuscinetto sotto braccio. Nel 1967 non usavano le sciarpe, altre insegne non ne avevamo, ma la passione cominciava a farla da padrona, anche se ancora mi chiedevo se "giocare in casa" non fosse troppo pericoloso per il mobilio. Le ripide gradinate del vecchio Ferraris erano impegnative per un babanetto di sei anni, ma le ultime due rampe, che aprivano lo sguardo su quello splendido prato color smeraldo, le ho sempre fatte di corsa, quasi in apnea, e papà scattava per starmi dietro. A quei tempi, quando il Genoa non giocava "in casa", capitava spesso di Domenica di mangiare nell'entroterra, e lì vicino si trovava sempre un campetto in terra battuta su cui scambiare quattro calci: papà sapeva correre, scattare, saltare per colpire di testa; aveva gambe secche secche, ma una vitalità nei contrasti che mi faceva inorgoglire. Così era allo stadio, sapeva scattare con me, e non mi sorpresi troppo quando, durante un Genoa-Cesena, nel 1969, mi ritrovai trattenuto da mio zio perché papà, già irreprensibile professionista, era in cime alle griglie: la partita fu sospesa per invasione di campo, lui, fortunatamente, non riuscì ad entrare.
Ho tanti altri ricordi di una vita passata allo stadio, innumerevoli direi, ma quello che più si collega a questi è stato molto più recente: nel 1997 papà era assente dallo stadio da più di 4 anni. La malattia che me lo avrebbe poi portato via improvvisamente l'anno dopo, gli aveva impedito di assistere al declino del Genoa dei miracoli, quello di Liverpool. Firenze e Ravenna erano state tappe che aveva vissuto, amaramente, dal salotto di casa. In realtà non ci sarebbero state controindicazioni assolute ad assistere a qualche partita soft, ma la paura - lui medico di se stesso - dominava la passione. Quell'anno, mentendo su un biglietto di distinti avanzato all'ultimo minuto, riuscì finalmente a portarlo allo stadio: Genoa-Lecce in cartellone, col Lecce di Ventura e Francioso primo in classifica e il Genoa, come al solito, ad arrancare nelle retrovie. Automobile al garage sotto i distinti e via verso il Ferraris: il passo era molto diverso dal 1967, ma le emozioni erano le stesse. Invertite però. Rivedo lo sguardo di papà, nel ritrovarsi davanti a quel prato color smeraldo che ormai era un ricordo, stemperato dal contrasto di un tvcolor. Una sensazione dolce-amara, meravigliosa, che non dimenticherò per tutta la vita. Era lo sguardo di un bambino, quello che i bambini hanno quando aprono un giocattolo nuovo a Natale, quello che avevo io alla domenica nel 1967. E questa volta ero stato io a regalarlo a lui. Vincemmo due a zero, ma almeno per quella domenica il risultato non interessava a nessuno.

Liaigh

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Le ragioni dell'anima (di Cecco Angiolieri)

E' difficile spiegare le ragioni dell'anima, o forse è inutile, perché l'anima non ti dà ragioni, che non siano esse stesse le ragioni della tua vita, le radici attraverso le quali vedi il mondo e il mondo vede te.
E il Genoa è una ragione dell'anima, perché la fede rossoblù avrebbe mille ragioni per vivere dentro di me, ma neppure una di queste è quella definitiva.
Forse è perché il Genoa, in lingua Genovese, si dice "o Zena" e il termine si confonde e sovrappone con quello della città ( a proposito, come si dice Sampdoria in Genovese?)
Forse perché mi piacciono i vicoli fumosi e vocianti e detesto i grattacieli pieni di vetri, specchi e manichini rampanti.
Forse perché amo gli obiettivi disperati e impossibili, e ad una vittoria vissuta da spettatore, preferisco una sconfitta vissuta da protagonista, e senza che la mia dignità - valga quel che valga - io l'abbia mai barattata per essere spettatore di meraviglie.
Forse perché nella Nord ho incontrato occhi contornati da rughe che come fiumi essiccati ricordano il percorso delle lacrime e del sorriso, e quegli occhi mi rammentano quando, tanti anni fa, in quella gradinata, c'era una mano piccola di bambino, dolcemente scaldata ed abbracciata da una mano vecchia e più grande, che un po' tremava, ma per amore, non per paura.
O perché i capitoli dei miei anni, hanno il segnalibro rossoblù, che al ripasso della memoria l'emozione magari non la trattengo, ma l'accompagno con la dolcezza del ricordo dei goals di Pruzzo e Damiani, o di giocatori come Cini e Balestrieri, Rigotto, Traspedini e Rivara
E poi un mondo di emozioni, di ansiosa attesa, della sacralità della domenica mattina, quando il calcio era ancora vero calcio, e si mangiava dalla mamma di Mario, che preparava i tagliatelli fatti in casa con il sugo di lepre, e si mangiava presto, a mezzogiorno, perché poi alle due e mezza c'era la partita.
E rotolare abbracciato a tre fratelli sconosciuti, dieci gradini in basso, al goal di Bonci, in Genoa - Reggiana 3 - 2, o i 50.000 spettatori di Genoa - Cesena, che in realtà saranno stati almeno diecimila di più, che stavamo in piedi anche in tribuna, per la gioia di Fossati.
Come un gigantesco file .zip che si sta scompattando in mille piccoli file, mi si sgranano velocissimi i ricordi dell'universo rossoblù: e so, lo sento, che le immagini, e i sentimenti sono divisi e condivisi da mille e diecimila e centomila memorie di tutti i fratelli rossoblù.
E mi sento meno solo.

Cecco Angiolieri

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Era il 1963 (di Claudio)

Era il 1963, io avevo circa 4 anni e in una domenica di pioggia torrenziale ricevetti il primo regalo di cui mi sia rimasta memoria: mio padre e mio cugino mi portarono al Ferraris (quello vero!) a vedere il DERBY.
Ero un bimbo piccolino ma grassoccio e in mezzo a quella Nord stipata all'inverosimile, schiacciato da tutte le parti nonostante le cure dei miei accompagnatori, eppure così orgoglioso di essere al fianco di papà e Marco (il cugino) ad assistere ad un evento per Grandi. Non facevo neppure caso al diluvio che imperversava e all'acqua che scivolando su quegli impermeabilini di cellophane, che ti vendevano fuori dallo stadio in una busta grossa come un pacchetto di sigarette, mi stava ormai inzuppando.
Solo, nelle orecchie, un coro senza fine, potente oltre ogni immaginazione, che ti faceva vibrare l'anima e che credevo uscisse dalla mia stessa gola: ma gli altri, quelli di fronte, come mai non si sentono? E i miei che se la ridevano....
Secondo tempo, un freddo che ti gela anche le ossa e noi sempre lì ad urlare come pazzi e io stanco e forse un pò noioso che tiro l'orlo dell'impermeabile a mio padre, perché mi prenda in braccio, perché mi faccia vedere qualcosa.... ma la partita dev'essere assai intensa e mio padre non sente o forse fa finta, morale mi incazzo e comincio a frignare. Bestemmiando papà alla fine mi tira su e tra le gocce di pioggia e i lacrimoni offesi vedo là in fondo un prato verdissimo con tanti omini piccoli che corrono e tutto passa.... Rivara riceve palla al vertice destro dell'area di rigore avversaria, sotto gli occhi dei cugini, fa due passi e la mette dentro!
E mi ritrovo lanciato in aria, abbracciato e baciato da centinaia di nuovi amici, di fratelli di sangue con le lacrime agli occhi eppure sorridenti come il vincitore di una lotteria. Mio padre adesso è stanco, consumato, il mio peso non lo regge più (anche perché io non riesco a fare a meno di dimenarmi come quelli che mi circondano!) e decide di posarmi sul gradone ma non ci riesce: quelli che lo circondano adesso e fino alla fine fanno a gara per tenermi in braccio loro, per non infrangere una cabala meravigliosa.
Ecco perché sono genoano da 40 anni.

Claudio

 

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A tempo scaduto (di Cecco Angiolieri)

Che la partita sia rappresentazione e metafora della vita, neppure troppo sottile e neppure troppo nascosta, è cosa nota a tutti.
Però una cosa a sapere le cose, un'altra è il viverle, e chi, come me, era lì, al Luigi Ferraris, in quel tardo pomeriggio del 4 giugno 1995 ricorda molto bene come si sudava avvolti in una cappa di caldo e di angoscia, mentre al fischio finale ti prendeva lo sconforto e la rabbia di quella tanto beffarda quanto vana vittoria sul Toro, che sembrava deriderti come un inutile e perduto sogno, affogato nella delusione di una retrocessione decisa per il punto che il Padova stava conquistando a Milano, contro l'Inter, attraverso un rotondo 2-2 che si era ormai affermato e (quasi) definitivamente consolidato essendo ormai scaduto il 90° minuto.
Ricordo come se fosse adesso quel momento: l'ho spezzato in mille frammenti di ogni singolo istante, e ora li conservo tutti, uno per uno, ciascuno come una fotografia della memoria: una gola violacea, gonfiata da vene che sembrano scoppiare, un urlo disumano, poi un brusio diffuso e sconcertato, infine il boato quando arriva la certezza di una notizia che non sembra neppure vera, tanto è bella e ormai inaspettata: l'Inter aveva segnato al 93° minuto e aveva battuto il Padova 3 - 2: non era più retrocessione: la speranza si apriva in un varco di luce nel buio più fitto.
Io non credo che ci sia un solo genoano che non ricordi il simbolo di quella speranza ritrovata, quando veramente tutto sembrava perduto, quando appena pochi secondi prima il solo immaginare l'evento, sembrava una follia della disperazione, il simbolo di quella speranza, il simbolo di quella rinascita è racchiusa in quella immagine indimenticabile del nostro capitano Gianluca Signorini che, avuta la notizia, dagli spogliatoi rientra in campo e corre verso la Nord, con le braccia alzate, e poi si inginocchia, ai piedi della gradinata impazzita dalla gioia, davanti a un cartellone pubblicitario e lo colpisce con i pugni per sfogare l'ansia, la tensione ma anche la carica che solo un amore disperato, di quelli che solo i Genoani sanno provare, riesce a darti e ad infliggerti.
Ho ancora negli occhi, e soprattutto nel cuore quell'immagine, come se fosse ieri, e io dico che non esiste nulla più di quell'immagine che sintetizzi la disperazione e la gioia sublime dell'essere Genoano, così come non esiste nessun giocatore che più del nostro capitano Signorini in quel momento sia riuscito a vivere la genoanità in modo così profondo e coinvolgente.
Il Genoa nella sua lunghissima storia ha avuto il privilegio di poter contare nelle proprie file campioni che sono diventati leggenda del calcio, campioni veri, uomini veri e Gianluca Signorini è certamente tra questi, ma, sarà una mia personale valutazione, entra nel novero dei grandi con qualcosa in più, con qualcosa che altri, pur grandissimi, non hanno avuto: è qualcosa che il nostro capitano ha trovato in quel caldo pomeriggio del 4 Giugno, forse mentre era a terra piegato in due con la faccia in mezzo all'erba, o forse mentre rientrato in campo dagli spogliatoi correva verso la Nord, o forse mentre dava i pugni al cartellone o forse, e più probabilmente, tra le lacrime di rabbia e di gioia che ha versato in quel giorno.
Oggi tocca a noi giocare una partita per lui, ricordando, semmai ce ne fosse bisogno con i Genoani, che le partite, tutte le partite, si giocano prima ed innanzi a tutto, sugli spalti, perché al popolo rossoblù essere mansueto spettatore non ha mai interessato, quella è cosa per altri, non per gente che non è mai stata lì solo a guardare, ma, nel bene e nel male, è stata sempre protagonista.
Oggi tocca a noi giocare la nostra partita, che sappiamo bene essere una partita difficile e piena di insidie, ma sarebbe bene, molto bene, ricordare adesso, proprio quel pomeriggio di Giugno, quando a tempo e speranza scaduti, a partita apparentemente finita, abbiamo visto il nostro capitano dagli spogliatoi ritornare in campo e correre verso la Nord esultando: e nessuno ha scritto da nessuna parte che non possa essere così anche domani.

Cecco Angiolieri

 

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Dal numero 1 al numero 11 (di Castao)

Ero poco piu' che un bambino, il calcio mi appassionava, mi rapiva e mi faceva sognare.
Quando non ero a scuola ero sul campetto, a casa invece il tempo libero era dedicato al gioco piu' bello del mondo in miniatura.
No, la play station non esisteva ancora, a quei tempi si giocava a subbuteo.
In quegli anni il calcio era poesia, generosità; i giocatori si identificavano nella loro squadra di appartenenza e rimanevano in modo indelebile nella memoria dei tifosi.
Allora i numeri giocavano un ruolo fondamentale: il numero identificava il giocatore e il suo ruolo, e questo, a mio avviso, era bellissimo.
Il numero era tutto, come si guardava un giocatore, dal portamento , dalle sue movenze, si poteva intuire il numero che avrebbe avuto sulle spalle. Anche il subbuteo scontava il rito dei numeri, si potevano ritagliare dei minuscoli quadratini di etichette adesive e, dopo aver scritto il numero incollarle alla schiena dei giocatori. Così il gioco diventava ancora piu' reale e in sottofondo si potevano anche sentire i cori dei tifosi delle due squadre.
I portieri erano solo 1 e 12, il 12 era un numero un po' sfortunato, non giocava mai ed era l'eterno secondo.
Il 2 era il difensore arcigno, normalmente di mezzi tecnici limitati ma grintoso ed eroico, lui marcava la seconda punta…insomma il Testoni o il Torrente della situazione.
Il 3, mezzo difensore e mezzo attaccante, capace di recuperi difensivi e proiezioni offensive continue. Doveva avere 2 polmoni come due mongolfiere e grande intelligenza. Spesso il tre andava anche in gol, quasi mai andava in gol il 2. Cabrini, Maldera… erano tutti dei 3 guai a metterli in campo con dei numeri diversi !
Una vita da mediano per il 4, copriva le spalle ai signori del centrocampo e portava l'acqua al mulino… anche lui in quanto a polmoni non scherzava. Il pensiero vola ai Furino, chissà perché a Pasinato, Oriali e al nostro inesauribile Castronaro.
Il 5 era il mio numero preferito. Per lo stopper ogni domenica era una sfida, belin, il centravanti non doveva segnare o era la catastrofe ! Indimenticabili i Morini, Collovati, Rossetti…
Il libero, ovvero l'aristocratico della difesa. Scelta di tempo, buoni piedi e capacità tattiche. Tutte queste doti ridiedevano nel 6… troppo facile ricordare il grande Scirea, Baresi, Onofri.
Dal 7 in poi viene il bello, il 7 era il tornante destro, la fascia era sua e il suo compito era di crossare quanti piu' palloni potesse per il centravanti. Qui il calcio era veramente poesia, quindi avanti con Claudio Sala il poeta del gol, Causio, Bruno Conti.
Questo numero fu portato impropriamente anche da una vera e propria seconda punta il grande Flipper Oscar Damiani. Era l'eccezione che conferma la regola.
I numeri 8 erano tutti uguali, differivano per le capacità tecniche ma si assomigliavano tremendamene. Testa alta, busto eretto e grandi geometrie. Non inventavano, costruivano.
Capello, Eraldo Pecci e mi piace ricordare i nostri Bittolo e Arcoleo.
Ora siamo al clou, il 9 era il numero che tutti sognavano. L'ariete dell'area di rigore, lui doveva fare gol e basta. Tiro secco, colpo di testa e agilità. Chinaglia, Pruzzo, Boninsegna e anche qui l'eccezione, quel Paolo Rossi che del centravanti classico aveva ben poco e che, probabilmente proprio per quello segnava gol a grappoli.
Il 10 poi era il massimo. L'inventore per eccellenza. Al 10 si perdonava tutto perché in qualsiasi momento poteva cambiare i destini della partita. Quando aveva il pallone nei piedi nella tre quarti avversaria si aspettava l'invenzione, il passaggio decisivo. Poteva anche essere lento, tanto il pallone lo metteva dove voleva lui. Rivera, Beccalossi, Antognoni.
Si finiva con la seconda punta l'11. Ci sono giocatori che credo di non aver visto mai con un numero diverso sa questo. Segnavano tanto ma non erano centravanti, avevano bisogno del 9 come dell'aria ma segnavano, eccome se segnavano ! Puliciclone, Bettega. Riva.
Insomma l'avrete capito, io i numeri assegnati non li digerirò mai. Come si fa a vedere un giocatore di pallone in campo con il 99 o con il 70 ? Torniamo ai numeri veri, torniamo ad un calcio piu' vero vi prego !!


 

CAstao

 

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L'abito della festa (di Vurpin)


La mia sciarpa è appesa 365 giorni all'anno in bella vista, in casa mia. Quando mi alzo la mattina e la guardo, comincio già bene la giornata. Ne ho avute tante. Alcune della leggendaria Fossa, altre fatte a mano. Un po' le ho regalate. Un po' chissà dove sono andate a finire con qualche trasloco di mezzo. Ma ormai mi sono affezionato ad una in particolare. Perché me l'ha regalata un mio caro amico. Un vero genoano. E' a strisce orizzontali Bianco Rosso e Blu. Da trasferta, oserei dire. Con un bel Grifone in fondo. Che quando annodi la sciarpa, si mette in evidenza bello fiero. E quando la vedo lì appesa, mi sembra di vedere tutta la storia e tutta la tradizione del Genoa dentro a quella sciarpa. Mi sembra anche di vedere tutti voi e la gradinata Nord. Cavolo quanto dovrebbe pesare quella sciarpa!! Invece niente. Quando la indosso, mi sento fiero e orgoglioso. Ci sto bene, sono leggero. E quando incontro qualche cacirro con la sciarpa d'Arlecchino provo una grande pena e commiserazione. Poverini. Non sapranno mai cosa significa essere genoani. E qualcosa che va oltre. E' uno stile di vita. Invece quando incoccio tanti di voi è come vedere qualcuno della mia famiglia. Qualcuno che ha la fortuna come, me ad essere genoano. Certo, spesso indosso anche la maglietta, ed il giubbotto con gli stemmi rossoblù. E' come l'abito della festa della domenica nei paesi di campagna. L'abito buono che si usava un tempo solo alla domenica. Gente semplice, lavoro duro, mani callose e muscolose che sanno solo di zappa. Rughe in viso scolpite dal sole. Ma alla domenica, il giorno della carne e della pasta fatta in casa, bisognava indossare l'abito della festa. Per rispetto, per tradizione, per condividere il momento di gioia con gli altri. E allora indossiamo sempre l'abito della festa anche noi quando andiamo allo stadio a vedere il Genoa. Il nostro abito fatto di sciarpe, magliette e bandiere. E non bisogna fischiare, perché già vedere il Genoa, è un momento di festa. E poi i ragazzi stanno dando tutto. E questo dovrebbe bastare. Almeno, a me basta. Allora prendete la vostra sciarpa, la vostra bandiera, la vostra maglietta e venite allo stadio. voglio condividere la mia festa, la nostra festa, con tutti Voi.

 

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Incontrarsi nel sogno (di Cecco Angiolieri)


E' strana davvero la vita, ma la cosa più incredibile è che a questa stranezza non ci si fa mai l'abitudine, così come non ci si abitua mai al groviglio di cose buone e cose cattive, che ti vengono propinate, senza che tu o nessun'altro possa districarle, separarle per gustarle separatamente, per dividere il calice amaro dalla dolcezza del miele: e forse è questa una fortuna che ci viene imposta dal destino.
Ed è così che in uno dei momenti più tristi e amari per noi Genoani, forse il momento più difficile e sofferto, quello in cui sembra che tutto, ma proprio tutto, ti crolli addosso e sotto i piedi, mentre ogni speranza si piega e si schiaccia, oppressa da una implacabile realtà che neppure troppo lentamente sta frantumando la nostra stessa esistenza, ecco, in quel momento, tu vedi alla guida del Grifone un uomo, un uomo vero, un Genoano, uno che è arrivato non per un ingaggio ma perchè lì ce lo ha portato la sua vita, la sua storia ed il suo cuore, proprio nel momento in cui più lontane e irrimediabilmente pedute sembravano certe figure, certe dignità, e certi valori non sbandierati, ma tanto silenziosamente quanto tenacemente seguiti.
E vedere al Genoa un uomo e un Genoano come te, Vincenzo, è davvero straordinario per me, che ricordo come fosse ieri quando venisti qui a scoprire la tua Genoanità, a compiere il tuo destino, a costruire per te stesso e per tutti noi giorni indimenticabili.
Ma se per me vederti allenatore del Grifo è la realizzazione del sogno mio, anche per te - io credo - è la realizzazione del sogno tuo.
E così - tu vedi - io e te, insieme a chissà quanti altri genoani, ci incontriamo un po' stupiti, in questo surreale appuntamento, quasi che il destino, per consolarti delle mazzate che ti dà, ogni tanto, almeno per un momento e solo per un istante voglia prendere le sembianze dei nostri sogni.
Cosa posso dirti di più, se non uno scontatissimo "in bocca al lupo", che però non rende neppure in minima parte le mie emozioni a saperti allenatore del nostro Genoa e men che meno riesce a darti l'idea di quanti auguri ti (e mi) faccia perchè il nostro comune sognare continui, cresca e magari diventi una di quelle realtà, che quasi sono difficili a credersi, ma proprio per questo sono più giuste e vere.
Un enorme in bocca al lupo, Vincenzo !

Cecco Angiolieri

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LAMENTO PER LA NORD

(di Gert dal Pozzo)

La luna rossoblu, il vento, il tuo colore
di squadra di mare, la distesa di teste...
Il mio cuore è ormai su questi gradoni,
in queste domeniche annuvolate dai fumogeni.
Ho dimenticato il resto, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria.
Più nessuno mi strapperà dalla Nord.
Oh, la Nord è stanca di presidenti assenti
in riva alle paludi di malaria,
è stanca di sconfitte, stanca di sberleffi,
è stanca nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato forte con l'eco dei suoi colori,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui gradoni,
costringono i giocatori sotto coltri di sudore,
mangiano delusione e speranza lungo le piste
nuovamente rossoblu, ancora rossoblu ancora rossoblu
Più nessuno mi strapperà dalla Nord.
E questa sera carica d'inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di Genoani furori,
un lamento d'amore senza fine.


Gert dal pozzo

 

 

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Il Giorno in cui il calcio morì

 

Ricordo l'istante in cui il calcio come molti lo avevano conosciuto, scomparve in uno sbuffo e in una parolaccia.

No, non sono i riferimenti cronologici ad essermisi stampati nella memoria, nemmeno saprei dire con certezza l'anno in cui il delitto fu perpetrato, probabilmente il 1992, o 1993... Sono invece le sensazioni angosciose di quegli attimi a non poter essere cancellate mai più.

C'era un tempo in cui le televisioni nel calcio ricordavano i pionieri nel Klondike: si era scoperto l'oro, ma i mezzi tecnici a disposizione per accaparrarselo erano approssimativi, le regole del gioco praticamente inesistenti, l'improvvisazione l'arma vincente.

C'era un tempo in cui quelli della TV intervistavano i giocatori mentre stavano entrando in campo. Giuro, non me lo sto inventando. So che chi all'epoca seguiva già il pallone farà fatica a richiamarlo alla memoria, e chi invece vi si è avvicinato in tempi recenti lo rifiuterà con sdegno, ma questo era quello che succedeva, per davvero.

E va bene, non ci credete? Guardate questo VHS. Sì, è un derby, è del 1980.

Le squadre sono schierate in campo, con i fiori in mano, salutano il pubblico...Sullo sfondo, i fumogeni delle gradinate e i cartelloni di Dino Calza. Ecco i giocatori della Sampdoria in carrellata, Alviero, Vullo, mamma che brutto Logozzo, e...Luca Pellegrini, ma...che fa quel tizio? Gli si avvicina col microfono? Incredibile! Sarà sicuramente una domanda fondamentale se si permette tanto, ascoltiamo..."Pellegrini! Pellegrini!...Come ci si sente, un giovane a un derby?" "Mah, bene bene" "Bravo!".

Non vi basta? Guardate Genoa e Udinese che corrono verso il centrocampo.

Quello è Artur Antunes De Coimbra, Zico per tutti, quello che all'ultimo mondiale in Spagna ha fatto cose galattiche, mica l'ultimo degli sciacqualattughe...No...Ditemi che n...Giorgio Bubba lo rincorre! Proprio l'ultimo degli sciacqualattughe! Oh Signur..."Zico, quest'Udinese vincerà lo scudetto?" "Ehhh, no se" "Chi può vincerlo?" "Tanci squadri" "Come si trova in Italia?" "Beni, beni".

Convinti, adesso? Bene, spostiamo la macchina del tempo di una decina di anni e andiamo a spiare cosa succede al San Paolo.

C'è Napoli- Paris Sain Germain, è l'andata di uno dei primi turni di coppa UEFA. Il Napoli dovrebbe distruggere i francesi, ma...dopo quarantacinque minuti sono i parigini a condurre, per due a zero. Sentiamo cosa dice Pizzul prima di mandare la pubblicità."Varriale a bordo campo, ferma uno dei giocatori mentre rientrano negli spogliatoi e chiedigli cosa c'è che non funziona stasera" "Ma veramenede, Bbbbbruno..." "Vai, vai!" "Ehm, Ferrara, chiede Bbbbbruno Pizzul cosa non funziona shtasera..." "Ma te pà che mo' te posso dì cosa non funziona shtasera...Cazzo!"

Avete mai più sentito un'intervista presa sul terreno della battaglia?

Io no.

E forse non è un caso che, nell'istante in cui il calcio fu giustiziato, Varriale fosse presente. E' un teste chiave, potremmo dire.

Ogni tanto mi sorprendo a pensare a cosa accadrebbe se, in un impeto orgoglioso e romantico, Cesare Castellotti munito di cuffia e microfono forzasse i controlli e irrompesse in campo mentre Juventus e Roma escono dal tunnel, gridando "Del Piero, Del Piero! Chi vincerà?"

Mi rispondo che probabilmente verrebbe arrestato per pedofilia.

E allora spengo la fantasia e metto su un disco degli Who.

El Mariachi

 

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