I luoghi della memoria

di Aglaja

 

Ieri sera, 3 febbraio 2005, il Genoa ha incontrato il Torino.

Il Toro ha 99 anni. E' stato segnato da uno strano destino, difficile e crudele, ma anche esaltante e vincente. Ha vissuto intensamente - in un ottovolante che ha tolto il fiato e fatto urlare più generazioni - la felicità incontenibile dei trionfi più grandi e il dolore insopportabile delle più grandi tragedie. I suoi tifosi lo hanno amato con passione viscerale, ma sempre con la dignità e la compostezza consapevole di un popolo attaccato alle proprie origini, che riconosceva nella squadra della propria città - e che della propria città portava il nome - le sue radici.

Ha giocato partite importanti, il Torino: contro campioni con casacche diverse, contro l'arroganza dei soldi e la strafottenza del potere, persino contro la morte (oltre alla tragedia di Superga, come dimenticare quella di Gigi Meroni, la Farfalla Granata, dalle ali che erano state rossoblù?). E queste partite le ha sempre affrontate con la forza del cuore e di un'incrollabile fede. Quella fede che ha unito il popolo dei tifosi ai suoi giocatori migliori, che a loro volta sono divenuti bandiere e tifosi.

il Grande Torino

Scriveva Gian Paolo Ormezzano, storica penna granata:

"...non ce ne frega niente del
calcio-industria, della recita per fingere di volere lo spettacolo quando invece si vuole semplicemente e ad ogni costo la vittoria della propria squadra. Noi siamo lì per il Toro, non per la partita del Toro, per il nuovo giocatore del Toro, per la classifica del Toro. Noi siamo lì a far sapere che siamo unici, che non esiste un amore come il nostro, che non esite una fede come la nostra. Il resto, tutto il resto, è chiacchiera ben che vada è coro (con voce fioca poi)."

Come non comprendere, da questa storia, da queste parole, come sia profondo il legame che unisce le due squadre, quella granata e la nostra rossoblù, e le due tifoserie?

Ma c'è un'altra cosa che, indissolubilmente, lega queste realtà in un sentimento che è filosofia di vita: l'amore per la propria storia, l'attaccamento alle proprie radici.

Vi invito a leggere l'articolo che segue, che ieri è apparso su LA STAMPA di Torino. E' di Massimo Gramellini.

So che la retorica degli "occhi lucidi" accompagna spesso noi genoani. Ecco, credo che chi al termine della lettura scoprirà di averli, gli occhi lucidi, non sia solo un genoano. Credo sia un uomo.


 BUONGIORNO di Massimo GRAMELLINI

Ritorno a casa 

Gli ex calciatori del Torino - Rosato, Rampanti, Agroppi, Pulici, Sala e cento altri - vogliono acquistare l'area derelitta dello stadio «Filadelfia» per ricostruire con l'aiuto di fondazioni e tifosi il tempio della loro giovinezza. Si tratta di una storia stupenda, a prescindere dalla fede calcistica di chi scrive e di chi legge, e da come andrà a finire. A chi la osserva con gli occhi dell'innamorato di sport, appare stridente il contrasto con certa attualità mercenaria. Ma il calcio stavolta è solo un pretesto che intercetta un sentimento più generale e induce a chiedersi se anche noi, come i Blues Brothers del film, saremmo disposti a fare qualunque cosa per rimettere in piedi la scuola, il cortile o l'oratorio in cui siamo cresciuti.

Nella vita di ciascuno c'è un luogo pubblico che diventa privato, uno sgabuzzino della memoria che custodisce sogni e ricordi condivisi con altri. Ogni offesa a quel tabernacolo viene vissuta come un oltraggio personale. E il desiderio di proteggerlo è un tentativo di dare ordine, forse anche un senso, al nostro passato. Proprio su un muro del «Filadelfia», prima che le ruspe lo buttassero giù, feci in tempo a leggere:
«Non puoi scappare a lungo dalla tua storia, perché arriva sempre un momento in cui essa ti riporta là da dove vieni». Vale per tutti: calciatori, tifosi, amanti, commessi viaggiatori, geometri. Quasi un riflesso tangibile di quel ritorno a casa che ci aspetta alla fine del viaggio.

lo stadio Filadelfia, oggi.

da LA STAMPA 03/02/05