Dicono del Professore

Tanto si è scritto su Scoglio, nelle ultime 24 ore. Ha lasciato ricordi importanti, e tutti fanno a gara a commemorarne la scomparsa, tanto incredibile da essere considerata questa si, da vero Genoano. Tra i tanti articoli ci piace riportare sul sito tre pezzi d'autore, tre firme giornalistiche che hanno scritto sicuramente i pezzi più belli. E poi vogliamo dare spazio a chi, tra i nostri amici, ha voluto ricordarlo con passione e sentimento.

Genoa, 4 Ottobre 2005

Marco Pastonesi, La Gazzetta dello Sport

E’ morto così, da un momento all’altro, in diretta, senza saperlo, senza immaginarlo, senza prevederlo - lui che tutto sapeva, immaginava e prevedeva -. Franco Scoglio è morto lunedì sera, in tv: non davanti alla tv, come uno spettatore qualsiasi, ma nella tv, dentro lo schermo, dentro uno studio, con il microfono attaccato alla giacca, la spia rossa accesa, gli ospiti collegati per telefono, la pubblicità che smorza le polemiche ma non gli infarti. E’ morto parlando di calcio, che era la sua passione, la sua vita. E’ morto - viene da dire - per troppo calcio, per troppa passione, per troppa vita. E’ morto pensando e parlando del Genoa, che era la somma di tutto questo: calcio, passione, vita e, in quell’istante, addirittura morte.

In fondo, avrebbe detto Scoglio, la morte è nient’altro che l’ultimo atto della vita, un gran gol in zona Cesarini. Scoglio è morto negli studi di Primocanale, emittente tv di Genova, ospite del programma intitolato "Gradinata Nord" e a Marassi la Gradinata Nord è la cattedrale del tifo rossoblù, un monumento storico, nazionale, umano, un coro di 15 mila cuori, anime, fantasie. Aveva avuto una vivace discussione per telefono con Enrico Preziosi, patron del Genoa. Poi un malore. Il cuore, si dice sempre, in questi casi. Un bicchiere d’acqua, no, programma sospeso. Soccorsi. Niente da fare. Si è capito subito che stavolta non ci sarebbe stata nessuna ripartenza, solo un maledetto fuorigioco.

Facile dire, adesso: quelle trasmissioni, quei processi, quegli appelli sono dei falò, degli incendi, sono dei festival di ugole e giugulari, sono il peggio del calcio. Aria fritta, aria marcia, malaria. Sono dei teatrini, dove si arrabbiano e s’insultano, poi appena s’interrompe il collegamento, tarallucci e vino, caffè e brioche, pacche sulle spalle, ciao ci vediamo la prossima settimana. Ma Scoglio no. Lui ormai frequentava più gli studi che i campi, e di questo si dispiaceva. Ma per fingere, non fingeva mai. Non parlava per contratto, non obiettava per soldi, non discuteva perché costretto. Lui, di quei teatrini televisivi, era l’unico personaggio vero, autentico, originale. Tuonava, sognava, sempre soffriva, raramente rideva.

Scoglio era così com’era: burbero, vulcanico, scoppiettante, ciclopico e ciclonico, probabilmente folle, o comunque attraversato da qualche vena di pazzia, intesa come quel territorio oltre la frontiera della normalità, e certo della banalità. Era provocatore, integralista, scontroso. Lo dichiarava lui stesso: "Voglio essere antipatico, scorbutico, rispettato e, possibilmente, odiato". Ma era se stesso. Era Scoglio. Era il Professore. Prendere o lasciare. Era quello capace di metterti le mani addosso, ma nel senso di un abbraccio, fatto con le braccia, appunto, però sentito e vissuto e dettato dal cuore. Era quello pronto a frugare nella memoria e ripescare un antico articolo, ormai dimenticato perfino dagli archivisti, ma non dai labirinti e dai meandri della sua formidabile memoria, e poi abile a selezionare un aggettivo usato, e - per lui - sbagliato.

Era quello disposto ad abbandonare la famiglia e trasformarsi in un carcerato per studiare il sistema dell’uomo in più. Era quello che rispondeva, quasi svogliatamente, al telefono, "hello", e poi ti travolgeva con uno tsunami di schemi, giocatori, formule. "Ad minchiam" l’ha inventato lui. E poi zona sporca, meccanismo di pressing a L rovesciata, 21 diversi modi di battere un calcio d’angolo. Stupiva, scopriva, sorprendeva. Spiazzava. Era quello che ha evangelizzato e colonizzato la Tunisia, e la fotografia che gli stava più a cuore era quella in cui lui, seduto, firmava autografi e regalava carezze a bambini che indossavano magliette come quelle di Khaled Badra e Hassen Gabsi.

Era quello che i calciatori li allenava facendoli giocare a rugby, che al suo pupillo Ruotolo spiegava "vedi Collovati, vedi com’è bello, lui può fare tutto, tu invece no", era quello che diceva che "la squadra dovrà tirare fuori gli attributi fino a farsi venire la prostata", era quello che alla morte di Signorini era un po’ morto anche lui. Era quello che studiava le lingue, dall’inglese all’arabo, pronto a rituffarsi in campo, sulla panchina, alla lavagna, era quello che pensava che il pallone avesse una sua musicalità, era quello che una sera in Gazzetta ha preso carta e penna e scritto: "La formula del calcio è spazio per tempo diviso 2". Era quello che confessava: "A volte penso che Gesù Cristo sia rossoblù". A quest’ora avrà finalmente trovato la risposta.

 

Roberto Perrone, Corriere della Sera

Se n’è andato perché stava parlando del Genoa e questo lo aveva distratto. Con un’altra squadra di mezzo si sarebbe accorto della morte in agguato e le avrebbe messo su uno sbarramento dialettico dei suoi. Comunque è morto alla sua maniera, sulla breccia, in tv. E soprattutto è morto nella sua città. Alle Eolie c’è nato, ma se ghe pensu, niente per lui è stato come Zena (e il Zena ).

Però è morto e per chi l’ha conosciuto e rispettato, al di là dei suoi limiti e dei suoi difetti, perché l’amicizia è fatta per superarli, ora c’è un vuoto. Di parole, di calcio, di vita. Francesco Scoglio di Lipari, 2 maggio 1941, diceva di essere cresciuto poverissimo, «a pane e cipolle». «Dormivo su un letto di pietra pomice con sopra la paglia». Coi soldi era sempre stato attento. Ai tempi del suo primo Genoa, nel 1988-89, circolava la leggenda che dormisse in macchina per intascarsi i soldi dell’albergo che gli pagava la società. Balle. Però è vero che aveva una Fiesta scassatissima e una volta rischiò la pelle sulla A12. Aldo Spinelli gli regalò un’auto più grande e sicura. La verità è che le leggende nascono solo sui grandi personaggi. Professore di educazione fisica con una laurea in Magistero, Franco Scoglio era un allenatore di lotta e non di governo. Uno che ha dato sempre il meglio, almeno da quando è salito alla ribalta del grande calcio, nel 1986, con il Messina, quando il gioco si faceva complicato, difficile, pericoloso. Quando non c’era più nulla da perdere. Il perché lo spiegò un giorno la sua ex moglie, la tedesca Brigitte. «Mio marito ha il terrore della sconfitta: non gioca neanche più a carte con i suoi figli». Così il Professore era eccezionale quando doveva rimettere insieme i cocci di una squadra allo sbando, meno quando doveva gestire un lungo periodo.

Per il Genoa sull’orlo della serie C, nel 2001, abbandonò la Tunisia (è stato anche in Libia e stava per tornare in Africa, continente che amava) con cui aveva conquistato la qualificazione ai Mondiali. Lo salvò alla grande. Poi, però, si fermò anche il campionato successivo. Errore. Partì fortissimo e poi s’inabissò. Teorizzava la ribellione dei giocatori e spesso non si presentava agli allenamenti: «Ci vanno i miei collaboratori. I calciatori devono avere la libertà di criticarmi».

Era generoso. A chi stimava conferiva il titolo di «dolcissimo». Era disponibile con tutti e nell’ultima telefonata, a proposito del suo ruolo di opinionista per Al Jazira, era triste per alcuni articoli malevoli. Non era un ciarlatano. Studiava il calcio come pochi. E quando sosteneva che «prima o poi l’Inter avrà bisogno di Scoglio», non era una fesseria. Perché Genoa e Inter si assomigliano, a livelli diversi. Tutte e due hanno un grande avvenire dietro le spalle. Tutte e due hanno bisogno di scosse.

I suoi detrattori elencano i suoi esoneri, i suoi innumerevoli campionati non terminati. Però si dimenticano che a Messina, a metà degli anni Ottanta, era stato uno dei primi tecnici a usare il computer. Ha avuto meno successo di quello che avrebbe potuto raggiungere. Limiti interni, ma anche esterni. Trovò una meravigliosa sintesi per spiegare le cadute: «Mi ha rovinato Berlusconi». Voleva dire che, nel rutilante calcio degli anni Novanta, l’ansia del risultato escludeva la pazienza, la possibilità di programmare, decretando un’accelerazione degli aspetti deteriori del football: l’ansia di successo, l’aumento di costi e stipendi, la fuga dalla realtà. Scoglio era un fautore dello slow-thinking . Pensa con lentezza. Il presidente che l’ha amato di più è stato Aldo Spinelli. Arrivò a richiamarlo per allegria. «È vero, con Bagnoli abbiamo avuto grandi risultati, ma io non mi sono divertito con nessuno come con Scoglio».

La morte se l’è portato via in diretta, sorprendendolo mentre diceva: «Sono un tifoso del Genoa». Se n’è andato, ma tutto si potrà dire, tranne che sia stata una morte ad minchiam .

 

Giorgio Cimbrico, Il Secolo XIX

Morto di Genoa perché lo aveva nel cuore, nella testa, nelle vene e in quel fiume che nelle vene scorre, il sangue. Come i profumi di Lipari, come l'avventura di Messina quando di Totò Schillaci diceva «ragazzo dolcissimo, non capisce un cazzo» e fu proprio lui a lanciarlo verso le notti magiche; come il girovagare furente di chi sa di avere uno scopo e qualcuno glielo nega sempre.
Le notizie che ti atterrano arrivano sempre con due squilli: un anno e mezzo fa, Pantani, la morte della solitudine. Ora, Scoglio. La morte di un cuore che scoppia in diretta, il cuore di uno che credeva nel suo calcio spesso negato, di chi si è sempre sentito escluso dal calcio dei grandi, dei ricchi, dei potenti, dei raccomandati, dei manager, di quelli che creano i cartelli, i trust. I corporativi. Lui non stava alla regole, lui diceva sempre pane al pane. Antipatico e cialtrone per tanti; dolcissimo per chi ha passato lunghe ore ad ascoltarlo senza che lui diventasse mai il grande ammaliatore. Franco aveva idee enormi e risultati piccoli, Franco era il più disadorno dei tribuni, spesso un anacoreta. Era l'uomo che solcava la notte: «A Udine non mi trovo: non c'è il sapore di mare di Genova, di Messina, della mia terra, di una Napoli che ho solo sfiorato. Prendo la macchina, guido fino all'alba, torno a giorno fatto». Sembra un film, era la sua vita di outcast, di fuoricasta, di fuoriposto. Di generoso. Franco era quello che d'improvviso, dopo aver mandato il mondo a quel paese, proponeva degli indovinelli e la risposta doveva essere che la musica più bella era quella della Traviata perché era piena di disillusione, e poi dolente e poi disperata. E per chi indovinava c'era il suo sorriso di pietra, alla Bogart.
Non è facile ricordarlo tutto, è più agevole ricordarlo a brani. Le sue sicurezze, ad esempio. Come quando andò a Torino a sfidare la Juve e il sabato sapeva quante occasioni avrebbe avuto e le segnava sulla vecchia pista del Pio con tratti disegnati dai piedi, e quanti palloni avrebbe aperto, improvvisi e illuminanti, Pato Aguilera. E quel giorno, nel cortile del vecchio Comunale, improvvisò un comizio da grande istrione: «Venite a me, terroni», iniziava e una folla gli si radunò intorno, piena di speranze, con sorrisi incerti. Il profeta, il cantastorie. Uno di loro.
A Genova è venuto, lo hanno cacciato, è tornato, lo hanno cacciato ancora. E' tornato. Si sentiva a casa anche se aveva scelto un rifugio e nulla più. «Sa, io provo a portargli primizie e qualche pesce, ma lui risponde che riso, latte, qualche patata vanno benissimo», raccontava chi si era accollato il duro compito di governarlo, di assisterlo. Lui era preso nei suoi schemi, nella poesia geometrica di un calcio che si rifaceva a quello uruguayano degli anni ruggenti e a quello suo, espresso nell'intensità di un movimento armonico e totale. Era un demiurgo che non imitava nessuno. Era un isolato che alla fine litigava con tutti, che non scendeva a compromessi, che malediva chi sottostava alle regole, chi si metteva la cravatta. Lui ne aveva una, di un brillante rosso e di un blu quasi elettrico, con un grifoncino nel mezzo. E aveva anche pochi vestiti. La giacca color prugna non riuscì a difenderlo dalla nevicata di Reggio Emilia: rischiò il ricovero, quel giorno. Ma quella giacca portava fortuna, una seconda pelle.
Sapeva da sempre di avere poco o nessun posto nell'establishment e la sua fuga dalla famiglia, dalle convenzioni, divenne anche fuga dall'Italia. Scoglio detto anche l'Africano, scrivemmo di lui. Già, perché Franco era diventato l'uomo della terza sponda, dello sbarco in Tunisia prima, in Libia poi. E ogni volta telefonava e raccontava le sue speranze, le sue glorie possibili e se non pubblicavi una riga, pazienza. C'era la concitazione di chi stava sposando una nuova avventura, di chi si vedeva già ai Mondiali, a contrastare il simbolo del calcio che l'aveva sempre rifiutato, messo in un angolo, di chi gli aveva concesso al massimo un ingaggio qua e là. Magari per perderlo subito. Non era facile stare al suo passo, non era facile accettarlo. Qui l'avevano accettato, amato. E in quell'anno magico che comincia da Modena (la C evitata per un soffio) lui impersonò la chiave di volta, la voglia di riscatto, l'orgoglio. Andava, parlava, metteva la mano sul cuore. Conquistò tutti ed è normale che fosse così. I risultati fecero il resto.
Gli anni sono passati, Franco aveva la stessa faccia, le stesse idee, le stesse speranze di quando lo incontrammo la prima volta e ci mettemmo a parlare di cose che non erano calcio: libri, musica, la possibilità di essere normali in un mondo che lo era sempre meno. E di Diego Maradona, certo, ma lui non era calcio. Mozart è musica? Aveva sempre fantastiche novità da dare e forse erano favole (la Guinea, il Camerun, il Togo? Chissà) ma era bello cullarle insieme e promettersi che il giorno del suo insediamento saremmo stati là perché l'Africa per lui, per noi non era un cuore di tenebra, era un nucleo di gioia, di speranza. E forse non era vero niente ma era bello.
Franco Scoglio non ha mai allenato una grande squadra (lui raccontava che Boniperti gli promise la Juve e che Ferlaino stava per affidargli il Napoli), non è mai stato tenuto in conto per diventare commissario tecnico della Nazionale, era un personaggio strambo che ha vissuto il suo anno più bello proprio qui, in mezzo a un calore che aveva saputo suscitare. Gli abbiamo voluto bene perché era un'aspirazione che non si spegneva mai. Un ramingo e un invitto.

 

Mario Marrocco

Lo sappiamo tutti: piaccia o non piaccia, da tempo il calcio non finisce più al triplice fischio dell’arbitro. Durante l’attesa della chiusura delle partite, centinaia di persone si muovono in studi televisivi per darci, a noi italiani medi, la nostra razione di interviste del dopo partita, di commenti di qualche esperto calcistico che non ha mai calcato neanche i campi della terza categoria, i goal, e poi altri commenti, in attesa del posticipo, occasione per ripetere tutto il rito descritto, ancora una volta e ancora una volta.

Gli “esperti” del calcio. Li possiamo dividere in tante categorie: ci sono i “passamicrofoni” come Varriale, il cui unico compito è quello di dire “Buongiorno mister, c’è XXXX che vuole farle una domanda”; ci sono gli “statistici” come Tosatti che, non capendo un cazzo di calcio giocato, si attaccano ai raffronti tra l’attuale classifica e quella della stagione 81/82, in cui non c’era il Livorno ma il Vicenza faceva altrettanto bene però applicava meno il fuorigioco; ci sono gli “urlatori” come Mosca, cioè quelli che, non avendo nulla da dire, alzano la voce per farlo sentire meglio, alla scopo di acquisire quella personalità che natura, ahiloro, non gli ha dato. Ci sono gli ex calciatori, opinionisti più o meno validi, ma il cui parere è almeno supportato dall’aver fatto parte del gioco che commentano.

E poi c’era anche Franco Scoglio.

Scoglio non era un passamicrofono; non era uno statistico, non gli servivano i numeri per stare in televisione; poteva accadere urlasse, ma non era una regola, e tirando le somme non mi sento di dire che rientrasse nel suo stile comunque provocatorio; non era un ex calciatore, ed il calcio lo vedeva non meglio, non peggio di altri.

All’interno del mondo del calcio, Scoglio era regolarmente invitato a trasmissioni, nazionali e non, per il solo fatto di essere come era: originale.

Anche chi il calcio non lo segue, sapeva chi era Franco Scoglio: era quello che “l’avversario non esiste”, quello che “ci sono ventuno modi per battere un calcio di punizione”, quello che, insomma,  non diceva le cose “ad minchiam”…. era il Professore.

In un mondo che tende all’omologazione, Franco Scoglio era un puntino colorato nel grigiore generale.

Qualcuno diceva “bene o male, l’importante è che se ne parli”: Scoglio riusciva in ciò con naturalezza. Poteva essere antipatico o simpatico, amato od odiato, ritenuto una persona intelligente o un idiota. Ma non passava inosservato.

E secondo me, questa mattina il calcio si è svegliato un po’ più solo.

 

Francesco Bollorino

INTERVISTA A FRANCO SCOGLIO PER REPUBBLICA (1994)

Il mio ricordo di un uomo con il Genoa nel cuore

Non è stato facile, fratelli di fede rossoblu, incontrare Franco Scoglio: prima alcuni mesi di appostamenti telefonici, nel senso che il cellulare del Professore o è occupato, o ha inserita la segreteria telefonica, o comporta una risposta cortese ma tendente la persistente procrastinazione: caro dottore in questo momento ho dei problemi. Raggiunto finalmente l’accordo per il giorno dell’incontro, al Pio XII dopo un allenamento, ho ricevuto il cortese invito a ritornare dopo qualche giorno per improvvisi impegni con Presidente; ripresentatomi la sera pattuita, lunedì 13 novembre, mi sono sentito dire, prima di essere invitato a seguirlo negli spogliatoi, che il tempo da me richiesto per l’intervista, due ore circa, lui non lo aveva mai concesso a nessuno, neppure a Gesù Cristo. Quello che segue è il risultato del nostro lungo incontro, durato ben più di due ore al punto che da qualche giorno, ogni sera, metto due sfilatini e tre acciughe sul tavolo da pranzo e aspetto, speranzoso, la dimostrazione della mia, prima sconosciuta, origine divina.

 

*****

 

“ Ho cominciato ad occuparmi di calcio in modo professionale nel 1970, a trentanni. Di calcio e del calcio mi sono però interessato da una vita: l’Italia è un paese di calciofili, è la passione dei bambini, l’attrezzo più semplice è un pallone, si può fare con delle pezze, è un attrezzo che non costa niente, non è un attrezzo da elitè, per cui era naturale cje mi interesssasse. Le mie origini sono estremamente semplici, non ho genitori altolocati, poveri ma di grande quadratura morale, vengo da Canneto di Lipari, un paesino. Le medie superiori le ho fatte tra Lipari e Messina, ho cambiato diverse scuole in relazione a quello che poteva offrire l’isola. Ho lasciato poi la Sicilia e ho completato gli studi a Roma dove mi sono diplomato all’ISEF.

Il mio rapporto con il calcio giocato è sempre stato solo ludico, ancorchè non goliardico, ho giocato in Promozione e ho fatto due partite in Serie C, non mi identifico con il ruolo del calciatore, dico sempre: io non ho giocato a calcio, questo è per me edificante e costruttivo, io non conosco l’attrezzo, non posso dire ad altri cose derivanti dalla mia esperienza di calciatore, non posso dare ad altri un mio patrimonio calcistico, perchè non c’è l’ho. Mi pace vivere secondo la teoria del cento per cento: se la materia la so dò quel che ho, nel cammop dell’esperienza diretta di gioco darei solo delle incertezze e nel professionismo si danno solo certezze, perchè non è più un gioco, ma un lavoro.

Dopo il diploma ho insegnato educazione Fisica fino all’ottantadue, nel frattempo mi sono laureato in Pedagogia a Messina e mi sono specializzato in Fisiatria a Roma: ho fatto moltissime cose per la fame di sapere. Non mi va di vivere la mia professione in modo riflesso, io debbo sapere, non ho la presunzione di dire in modo approssimativo io so, io so di sapere e questa è la mia forza. La mia cultura specifica non deriva dal pressapochismo, ho sempre cercato di non dipendere dagli altri.

Nel calcio non vi è solo una componente tecnica o tattica, fondamentale è la componente psicologica e pedagogica; la componente muscolare non è importante, stranamente, più importante è l’aspetto psicologico e pedagogico, la tattica e la tecnica, la preparazione fisica sono importanti ma non prioritarie. Soprattutto in un calcio come quello attuale un tecnico è obbligato a sapere, per essere in grado di discernere tra tutto quello che viene detto e lui è tenuto ad ascoltare. Non ho mai lavorato con pressapochismo bensì con feroce volontà di conoscere. Ho sempre vissuto nell’ambiente del calcio, prima nei settori giovanili della Reggina, sette otto anni, poi come allenatore di società minori, affiancando questa attività all’insegnamento, era il mio hobby pagato, affronato con grande amore, con voglia e volontà di sapere. Ho insegnato fino all’ottantadue, quando ho deciso di intraprendere la carriera professionistica; prima mi ritenevo un allenatore part-time, non ritenevo possibile esprimermi ad alti livelli, non ero un professionista al cento per cento, non riuscivo a pensare me su una panchina importante; mi interessava molto l’ambiente dello sport, l’ambiente del calcio: per me era didattica come a scuola. Ho insegnato sedici anni, mi piaceva moltissimo, ero un insegnante diverso: la mia diversità era prima di tutto nel voto, non esiste nella mia valutazione la negatività, per cui l’allievo peggiore aveva sempre il sei, perchè parto dal presupposto che ognuno opera secondo le proprie possibilità, se gli altri lo mettono in condizioni di poterlo fare, per cui se un alunno non riesce a raggiungere la sufficenza, ciò sta a significare che l’insegnante è incapace di fare apprendere, per cui il primo limite va ricercato non nell’incapacità dell’alunno, ma nell’incapacità dell’insegnante, per cui un’insufficenza ad un allievo è necessariamente una insufficenza per il maestro e questa è un’analisi che in genere viene rifiutata perchè è difficile che un insegnante si guardi allo specchio e dica io non sono in grado di dare. Non posso premiare un ragazzo che ha capacità naturali superiori ad un altro con un voto superiore, io valuto in relazione alle possibilità. Ho avuto dei grandi presidi con cui ho avuto rapporti straordinari, con i colleghi erano scontri anche violenti per il mio modo di pormi agli alunni che era conflittuale con il loro modo di pensare, attento solo ai numeri.   

Non ho un grande innamoramento nei confronti del mio passato scolastico, perchè la scuola come è oggi, è drammatica perchè non dà assolutamente nulla, come era, era sicuramente più istruttiva, dava di più era più difficile.

Ho sempre desiderato il rispetto da parte dei miei alunni, il bene no, il bene è un sentimento umorale, che passa il rispetto invece resta, l’amore, la passione passa, è splendido che ci sia, ma poi finisce, la stima invece dura; è la stessa cosa che desidero accada con i ragazzi della squadra: io non sono voluto bene, ma certamente sono rispettato. Se mi si dice: è un brav’uomo, è un buon uomo, mi si offende, io debbo essere rispettato per la mia linearità, per la mia “giustezza”, per me è fondamentale essere giusto, è quello che dico sempre ai miei ragazzi: voi dovete evidenziarmi una mia ingiustizia, non una mia negatività tecnico-tattica, quella viene e passa. Io mi auguro che loro capiscano le mie scelte, se così non fosse sta a me intuire i loro dubbi e chiarire. L’essere giusto non mi rende immune da errori, ma la mia forza è la capacità di autocritica in funzione del gruppo di lavoro in cui agisco ed è splendido poter loro dire: ho sbagliato, ciò mi da una sensazione di benessere incredibile, perchè è difficile che un uomo fatto dica apertamente a dei ragazzi: io ho sbagliato.

Le idee nascono dal rifiuto di quello che non vuoi per te stesso, io non divido la mia vita calcistica dalla mia vita comune, per cui, da quando ho avuto la capacità di pensare e vivere in un contesto, è maturata la mia capacità di analisi, oggi sono diverso da ieri, arrivo a portare ai ragazzi un patrimonio di esperienza non di cultura, io non faccio pesare il mio retrobottega di libri, io dò immagini delle mie esperienze di vita, nel comportamento, non nelle parole: quello che non volevo fosse fatto a me, quello che ritenevo frustrante, non lo faccio fare ad altri; io non mi posso vergognare della mia cultura. C’è una parte della mia vita che non deve interessare, ed è il mio privato dove non faccio entrare nessuno, la parte del sentimento non appartiene al mio lavoro, io non posso avere sentimenti, tutte le volte che io esprimo sentimenti, è finita, il mio lavoro ne risente; a proposito della mia vita privata si vive sul si dice, nei miei sentimenti non entra nessuno, io debbo essere valutato solo per i risultati che dò e mi auguro di dare: non esistono figli, non esiste la famiglia, non fa parte del mio lavoro; io devo dare il cento per cento di me stesso al calcio, al mio lavoro, nell’istante in cui non lo faccio sono dolori.

Bologna, esonero alla sesta giornata, non è stata colpa della società o del gruppo dei calciatori è stata colpa mia. Udine, altro esonero, con la squadra a due punti dalla vetta, di nuovo colpa mia, perchè non davo il cento per cento.

Vilhudic, un vecchio, saggio allenatore slavo diceva sempre: «Responsabile del risultato è il tecnico.», io sono responsabile e per il risultato io sacrifico, annullo tutto, quando non riesco a farlo è finita. Io non posso vivere la mia professione al settanta per cento, io non posso staccare perchè ho paura che ne possa risentire il risultato; il risultato a livello professionistico è il massimo per cui non c’è spazio per i sentimenti, non mi piace essere così come sono, spesso ci rifletto su, le rinunce sono enormi, lo faccio perchè ci si lascia trascinare e non si ha la forza di dire basta, puoi fare bene la professione ed avere dei risultati, ma fai male altre cose.

Io ho sempre programmato la mia vita, ho solo sbagliato quando dissi che se entro tre anni non raggiungevo una squadra in grado di lottare per lo scudetto mi sarei ritirato, le circostanze me l’hanno impedito; il calcio è una droga, ti manca l’erba, ti manca lo spogliatoio, la pressione della gente e non hai la forza di mollare e rinunci a quelle tappe di miglioramento che hai progettato.

Nell’82 per ambizione e per soldi ho fatto la scelta perversa di diventare un professionista, ho lasciato la scuola, allora insegnavo a Reggio Calabria, mi sono dato delle date: nello spazio di tre anni volevo arrivare in B, in altri tre in A. Del Messina, di Messina conoscevo tutto, i nomi, le persone, la vita: ero uno di loro. Sono rimasto in totale cinque anni, tramite Sogliano sono arrivato a Genova nel 1987.   

Il giudizio più importante di me stesso non lo aspetto da nessuno, lo aspetto da me, il giudice più feroce di me stesso sono io, non gli altri.

I meccanismi del gioco… Torrente è tatticamente perfetto, conosce tutti i movimenti che deve fare a seconda della zona del campo in cui si trova. Ogni mio giocatore sa cinque movimenti, proprio del suo ruolo, oltre a essi deve conoscere i movimenti propri degli altri compagni per poterli svolgere nel momento in cui si trovi ad agire in una zona di campo diversa dalla sua abituale. Io non ho una squadra di valori tecnici assoluti, ma una squadra che fa dell’applicazione la sua forza.

Il campo è un palcoscenico su cui tutti possono essere protagonisti, io non credo che per fare l’allenatore si debbano avere qualità particolari, una persona che “sente” il campo e ha capacità di analisi può arrivare ad essere un tecnico. Dietro il mio lavoro ci sta uno studio incredibile, la superficialità va esclusa nel mio lavoro: il calcio segue delle regole matematiche, è una scienza esatta, in difesa e a centrocampo, la variabile creatività deve scattare in attacco per il singolo giocatore che deve essere libero di inventare.

Il Genoa è un gruppo ben organizzato che segue delle regole. A livello normale, il lavoro di gruppo è superiore alla creatività individuale, undici geni debbono lavorare secondo gli schemi, ddebbono dipendere dal progetto comune; le grandi imprese, il risultato straordinario non si ottiene con il solo gruppo, è necessario il colpo di genio. Il Genoa farà un buon campionato ma per un grande risultato è carente sul piano della genialità. La Samp senza Gullit era una squadra normalissima, con Gullit e Mancini, con la loro estrosità superiore messa al servizio dei compagni meno dotati, può permettersi di sognare.

Soldi… Sul rettangolo di gioco si dimenticano i guadagni, anche quelli altussimi; fuori molti soldi ti spingono a pensare poco e a pensare male. Il mio rapporto con i giocatori finisce sul campo, non entro nel merito della loro vita privata: io valuto tutto sul rettangolo di gioco, io non dò mai consigli, mi limito ai fatti, è difficile un’analisi critica sul privato. Io odio fumo, alcool e stupidità: chi fuma o beve è un debole, legato all’effimero di un piacere momentaneo, la stupidità è il male del secolo, sono queste le uniche cose che mi infastidiscono nei miei ragazzi, ho illustrato loro i rischi connessi al fumo e all’alcool, sulla stupidità non mi sono mai soffermato.

Io ho smesso di leggere e vedere film da dieci anni, mi occupo solo di calcio,

Genova è una città che mi si è adattata perfettamente, io sono un uomo di mare. Sono andato via di qua per colpa mia, sono stato scorretto, ad un certo punto a giocato con tre mazzi di carte, come si dice in Sicilia, ero stato attratto da due grandi squadre e speravo di andarci per ambizione di lottare per lo scudetto. A marzo nel momento della discussione del rinnovo del contratto io ho preso tempo, non sono stato corretto. Ho avuto due anni negativi, a Bologna e a Udine, mi ero un po’ seduto, non ero io, gli esoneri sono stati la conseguenza logica di questa situazione.  Io vivo i miei insuccessi in modo drammatico, non vivo la sconfitta in modo razionale, io non perdo da allenatore, perdo come uomo: io vinco meno bene e in maniera meno forte di un allenatore comune, la vittoria non mi dà alla testa, vinco per il popolo dei tifosi, per i miei giocatori, per il mio magazziniere, per la Società, per me è la logica conclusione del mio lavoro; esteriormente non mi lascio trasportare dalla sconfitta, dentro è una distruzione drammatica, è stato sempre così anche quando allenavo in seconda categoria.

Dopo una sconfitta si deve usare l’ironia nello spoglaitoio per sdrammatizarla, ingoiare l’amaro calice e fare gruppo.

Spinelli… Per venire qua ho rinunciato ad un sacco di soldi garantiti, a Pescara, sotto l’aspetto economico sono stato uno stupido, essere allenatori del Genoa non è facile ma è splendido, è un’esperienza che io auguro ai più grandi; purtroppo nel calcio i sentimenti non contano, per cui un Presidente deve guardare ai risultati, nel momento in cui i risultati danno torto è giusto che il Presidente cambi il tecnico. Una squadra è in un momento difficile quando è ultima, questo non è il caso del Genoa di oggi, ma si stanno ponendo davanti agli occhi dei tifosi delle verità che non esistono, al momento opportuno lo capiranno: io faccio scelte tecniche, in questo momento Miura non vale Van Schip. Io posso dare speranze ma non illusioni, il nostro non può che essere un campionato da nono o decimo posto. Al Genoa tutto finisce in piazza, ha i pregi e i difetti del popolo.

Politica… Io trovo dentro di me due Franco Scoglio, uno eroe e uno vigliacco; se io debbo consigliare il Franco vigliacco gli dico: per cortesia, vattene, lascia l’Italia, trovati un angolo, forse in Africa, dove si viva bene, liberi; se invece parlo al Franco eroe gli dico: resta e comabtti, perchè c’è da lottare. La situazione italiana è insicura ed instabile, quello che più preoccupa non è l’aspetto materiale, è l’aspetto morale a fare acqua; io rimpiango la mancanza di un chiaro riferimento politico a sinistra, per potersi difendere da chi sta ora al governo, oggi non mi sento tutelato e ho una grande nostalgia di Enrico Berlinguer, un vero leader: l’opposizione ha perso molto potere, rispetto al megafono televisivo di Berlusconi e compagnia. La mia grande forza è la libertà: io sono libero, non ho padroni della mia mente.

Mi piacerebbe che la gente si ricordasse di me, al di là del fatto tecnico, come uomo giusto. Io so che apparterrò alla storia della gente che segue il Genoa, per questo io spero di essere ricordato come un uomo libero e possibilmente un tecnico giusto.