Sommario:
Torrente al Secolo XIX del 9/10/02:
"L'allenatore si lascia anche andare a una battuta sul ritorno della
B alla
domenica: «Io preferisco sempre la domenica pomeriggio, addirittura
alle
14,30. Sono per le magliette dall'1 all'11: evidentemente sono un
tradizionalista".
Nella foto l'allenatore del Genoa in una occasione assai compromettente
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Edoardo Sanguineti, Corollario, Feltrinelli, Milano
1997
con gli occhi caldi, qui, del dottor Spensley (se metto insieme e preistoria
e protostoria e storia), un secolo calcistico mi scruta: (sta mezzo abbandonato,
le gambe accavallate: trascura un volumone, aperto lì al suo fianco,
per guardarmi,
e tutti gli altri libri, schierati là negli scaffali, fitti: e
si regge la testa,
con una mano, taciturno, ormai):
la vecchia sfera gira sempre, tra i nostri piedi,
inquieta, accarezzata dai venti marini (e, sotto i nostri piedi, ruota
ancora
la sfera del pianeta):
fotografie superstiti (piene di tempo, popolate di morti
noti e ignoti) additano, per frammenti di lampi, questa lunga leggenda:
è rossa, è blu:
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Mio
papà (di Massimo Donelli Articolo Tuttosport 08/05/98)
Mio padre è morto tre anni fa, da genoano.
E’ andata così. Erano le sue ultime ore di vita, era domenica e gli ho
messo la radiolina sul cuscino, perchè potesse sentire, nel suo stato
di dormiveglia, Tutto il calcio minuto per minuto. Il Genoa giocava a
Verona, contro il Chievo. Passò in vantaggio quasi subito. E questo ci
preoccupò. Ho imparato sin da bambino a preoccuparmi anche quando siamo
in vantaggio. E, soprattutto, a esultare solo dopo il fischio finale.
Papà mi ha insegnato che con il Genoa si può perdere anche al cinquantanovesimo
secondo del settimo minuto di recupero. Io ho provato sulla mia pelle
quanto sia autentico questo dogma. E lui lo ha osservato perfino nelle
condizioni disperate in cui si trovava quella domenica.
Ogni volta che riapriva gli occhi, infatti, mi domandava “A l’è finia?”
oppure ”L’han fetü u secundu?”. E andò avanti così anche mezz’ora dopo
la conclusione della partita, facendomi piangere e ridere insieme. Quando,
qualche giorno dopo, lo accompagnarono a Staglieno i suoi amici, portuali
e genoani come lui, raccontai loro questo incredibile finale di vita:
l’agonia rossoblù. E loro mischiarono con me lacrime e riso: “U le mortu
da genuanu, u Mariu”.
Sì, è morto da genoano, così come da genoano aveva vissuto. Trasmettendomi
geneticamente quel virus (nome scientifico: “Gradinata Nord”) che spesso
intossica il fegato, ma irrobustisce il cuore, consentendo a chi ne è
portatore di affrontare nella vita, calcistica e civile, qualunque difficoltà.
Nascere genoani, infatti, è, tutto sommato, una grande fortuna. Impari
da subito che l’esistenza è un’altalena (tra A e B/ tra felicità e infelicità),
che il passato conta (ci sono nove scudetti sulla nostra bandiera/ c’è
sempre un grande nonno in famiglia), che, qualunque cosa accada, bisogna
avere fiducia nel futuro (il decimo scudetto per la stella/ un’esistenza
migliore).
Sono stato, per dirne una recente, a Ravenna. Ho visto lo zero a uno con
il Montevarchi. E anche una partita contro l’Udinese a Marassi che abbiamo
perso tre a zero non so ancora come. Però c’ero con il Liverpool: e ho
pianto di gioia. C’ero a San Siro quando abbiamo battuto tre a uno l’Inter
di Schillaci. E davanti alla mia scrivania campeggia un poster del Gol
di Branco (che di gol con il Genoa ne ha fatti tanti, ma quello è il Gol).
E negli archivi c’è scritto che nessun club italiano ha mai vinto all’Anfield
Road, tranne noi (Coppa Uefa, ‘91-’92).
Sai che barba tifare Juve, Milan, Inter? Sai che bello trovarti d’improvviso
in panchina Osvaldo Bagnoli? Certo, hai dovuto sorbirti Miura, Eloi e
perfino Vink. Hai visto sbagliare rigori-salvezza da Zigoni e da Pruzzo.
Ma sull’ottovolante rossoblù non ti annoi mai, non c’è mai nulla di scontato.
Può capitare perfino che mentre tutti si vedono negare gol regolari contro
la Juve, a te succede il contrario: un gol-fantasma (Galante, a Torino,
campionato ‘94-’95) ti viene convalidato.
Genoa, emozioni garantite. Sempre. L’impossibile che diventa realtà. L’amore
eterno che meriterebbe l’attenzione di un nuovo Sigmund Freud. E che genera,
tra i tifosi della periferia ovest genovese, spaventosi, incancellabili
complessi di inferiorità.
Genoa, il primo club di calcio in Italia 105 anni fa, il primo scudetto
100 anni fa...Te lo senti dentro, questo secolo leggendario. Tuo padre,
tuo nonno, il padre di tuo nonno: non c’è umiliazione (e ne abbiamo avute
tante), non c’è ingiustizia (e ne abbiamo subite tante), non c’è niente
(niente) che possa interrompere questa catena.
Per esempio. Io vivo a Milano, ho sposato una milanese, ho tre figlie
milanesi di nascita e accento. Voi non ci crederete, ma una delle tre,
Giulia, è genoana (Francesca e Carlotta sono agnostiche). Ed essere genoani
a 10 anni in una classe di interisti, milanisti, juventini non è facile.
L’hanno presa in giro in tutti i modi, la mia Giulia. Ha già bevuto fino
in fondo l’amaro rossoblù (era con me a Ravenna). Eppure tiene che è una
meraviglia. Il virus “Gradinata Nord”, evidentemente, è anche immunizzante.
E, come dicevo, fortifica.
Perciò oggi, 8 maggio, noi non celebriamo qualcosa che fu. Oggi noi celebriamo
qualcosa che è. E che sarà. Celebriamo il nostro essere genoani, figli
di una storia gloriosa, fiduciosi in future vittorie. Tanto fiduciosi
che l’ho giurato: quando agguanteremo il decimo scudetto, andrò con Giulia
a piangere di dolore e di felicità sulla tomba di mio padre. So che accanto
a noi avremo mio fratello. Ci vorranno anni? Pazienza. Saremo invecchiati
assieme, da genoani. E, come mio padre, moriremo da genoani.
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