
Enrico Currò
Una sera, a Marassi (da Repubblica)
Scene come quella di ieri sera a Marassi, dove lo stadio si è riempito
per applaudire una squadra che stava retrocedendo in C, sono la norma
in Inghilterra, patria del calcio, non certo in Italia, dove ogni sconfitta
è una vergogna, l¹arbitro è sempre cornuto e i calciatori devono andare
a lavorare. C¹è, dunque, qualcosa di atavico nel saluto dei tifosi al
Genoa, che dagli inglesi fu fondato e che importò nella penisola uno sport il
cui originario stile britannico è considerato, da tempo, fuori moda come
le acconciature di Miss Marple. Ma nel composto addio alla serie B, intriso
di malinconia e di orgoglio, c¹è soprattutto il marchio della
genoanità, categoria dello spirito dall¹alto valore pedagogico: quale altra
pulsione può educare alle beffe della vita più dell¹irrazionale attaccamento
a undici maglie rossoblù che quasi mai vincono, quasi sempre perdono e
sono immancabilmente rappresentate da padroni senza una palanca e con vedute
più ristrette dei caruggi? E¹, in fondo, un miracolo il fatto che continuino
a nascere, a crescere e a riprodursi individui pervicacemente
genoani, ostinati nel resistere alle sirene blucerchiate, oggi di nuovo
bellocce grazie al lifting garroniano, per non parlare delle colleghe
bianconere, rossonere o nerazzurre. La tv, nell¹era di Berlusconi, in mezzo
alle veline, alle letterine e ai monologhi del premier, incastra i gol di
Shevchenko, Vieri e Del Piero, mica quelli, rarissimi, del prode Mihalcea. E
sulla playstation ci sono perfino i belgi del Mouscron, mica il Grifone, che
al massimo è quello del Perugia.
Se tuttavia il romantico censimento
del tifo classifica il Genoa stabilmente in serie A, ben davanti a Chievo,
Empoli, Modena, Siena e compagnia di provincia, lo spietato censo dei
risultati dice che, da oggi, è una squadra di terza serie. Come tale, del
resto, veniva trattata già da qualche anno, negli uffici della Lega di
Milano, dai quali la terrà lontana, si spera soltanto per la prossima
stagione, questa seconda retrocessione in C. Vista dal periscopio meneghino
di via Rosellini, dove si conciona di Champions League, di Superlega, di
diritti tv e di come trovare nuovi introiti da sperperare per lo Spice Boy di
turno, la serie B è una fastidiosa appendice, che sottrae decine di milioni
di euro ai club più ricchi e potenti. Figuriamoci la C: c¹è chi suggerisce il
bisturi. La leggenda della società più antica d¹Italia non commuove Galliani
e Giraudo, né tanto meno il loro omologo romano Carraro, presidente federale
e nemico personale di Preziosi. Recentemente, durante un briefing, dopo il
catering, da prestigiosi studi di marketing sul target è emerso che Genova
farebbe parte del bacino di utenza di Milano: tradotto dallo yuppese, vuol
dire che del Genoa in serie C, a chi governa il pallone, non gliene frega un
bel niente. Questa è la sostanziale differenza tra la retrocessione del ¹70 e
quella di oggi: tra il calcio a cui si affacciava Pruzzo e quello della Lazio
quotata in borsa e salvata dalle banche, non c¹è solo un baratro di
trent¹anni. Allora bastavano il cuore, il buonsenso e qualche acquisto
azzeccato. Oggi, se si sbaglia come hanno sbagliato i pessimi amministratori
del Genoa e se si resta per troppo tempo alla periferia dell¹impero, il
rischio è di sparire. Il campionato rossoblù è stato costellato di sconfitte
vergognose, incassate da calciatori che, in qualche caso, davvero avrebbero
fatto meglio ad andare a lavorare. E gli arbitri, talvolta, sono stati un po¹
cornuti. Ma la serie C, ammettiamolo, non è colpa dei Lando Buzzanca col
fischietto. Il pubblico l¹ha capito e la gradinata Nord, sempre più
imbandierata via via che aumentavano le disfatte, ha sedotto un ambizioso
industriale. Preziosi sa che il Genoa non è un giocattolo e ha promesso la
serie A: se succede, sulla playstation lasciamoci pure il Mouscron.
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