Oh, intendiamoci, le idee molto chiare in tema di tattica e strategia, nel calcio non ne ho mai avute, anche perché a tutt’oggi mi domando se davvero sia una mia incapacità a capire, oppure da capire ci sia proprio poco, nel senso che tante formule, catene, movimenti, sovrapposizioni non siano eleganti concetti con cui rivestire il nulla.

Ora, può anche darsi che, come diceva Einstein, Dio non giochi a dadi, ma da Preziosi a Perotti, passando da Fabiani, mi sembra che siamo lontanissimi dall’onnipotenza e dall’onniscienza e quindi, se anche fose lecito pensare che Dio non giochi a dadi, può darsi, invece, anzi è probabile, che questi abbiano una grandissima propensione al gioco d’azzardo.

E allora, se nell’universo, secondo il grande fisico, nulla può essere irrazionalmente casuale, chissà che nel molto più ristretto ambito calcistico l’irrazionalità e la casualità non siano invece di casa.

Personalmente, da molto tempo ho rinunciato a capire, perché sinceramente mi sembra fatica sprecata, soprattutto perché devo ancora comprendere se davvero ci sia qualcosa da capire e, ammesso che ci sia, valga davvero la pena cercare di farlo.

Certo che, anche in questa partita, ci sono cose che almeno per me sono del tutto inspiegabili.

Prendiamo come archetipo Iliev, ad esempio, che per tutto il primo tempo sembrava essere stato rapito dai servizi segreti argentini, e che per un quarto d’ora del secondo, evidentemente scosso dalla traumatica esperienza, ciondolava trascinando per il campo il suo inutile corpo, come se cercasse nel rettangolo verde il perché del vuoto esistenziale così acuto che evidentemente lo coglie nel rincorrere in mutande quella strana sfera di cuoio a scacchi.

Ad un tratto, però, il nostro - forse perchè fulminato da qualche grandiosa e segreta visione, o forse perché nella sua contortissima mente ha riassaporato il gusto di una sua qualche sua “madeleine” che gli ha ricordato che era un giocatore del Partizan di Belgrado – si risveglia e sembra trasformato in una sorta di Maradona che gioca in un campo di calcio le cui linee laterali sembrano state fatte non con il gesso ma a righe di cocaina.

Sembra tarantolato, ne scarta 4 alla volta, fa stop perfetti, entra in scivolata, corre come un dannato e dimostra una concentrazione come se quella fosse la partita della vita: insomma per 30 minuti fa quello che un qualsiasi professionista dovrebbe fare per tutto l’arco della partita e per tutte le partite, insomma fa quello che se solo avesse fatto per tutto l’incontro, avrebbe portato sicuramente alla vittoria.

E tutta la squadra, seguendo lo stesso paradigma, ha aspettato l’espulsione di Rivaldo (che però se si fosse chiamato Bedondo sarebbe stato meglio anche per lui) per farsi venire stimoli e mostrare quel minimo di entusiasmo in più, che ogni giocatore di calcio dovrebbe dimostrare di avere per distinguersi, quantomeno per l’entusiasmo, da un impiegato precario dell’anagrafe a 700 euro al mese.

Ma invece no, lui, come anche quasi tutti gli altri suoi compagni, chissà perché, per giocare al massimo deve avere l’ispirazione, deve trovare il momento creativo, deve carpire l’attimo fuggente.

Io però – lo confesso – mi sono davvero stancato di aspettare che ai nostri eroi venga l’estro, o siano pervasi dal soffio divino dell’ispirazione.

Come tifoso Genoano sono pronto ad affrontare qualunque “spettacolo”, ma la pantomima della mancanza di stimoli o dello stimolo a corrente alternata, sinceramente, non lo accetto, e, personalmente, sto perdendo ogni interesse per queste “leggere”, che sarebbe meglio giocassero anche in casa con le maglie da trasferta, per evitare di sporcare la casacca rossoblù.

Domenica, di conseguenza, me ne andrò a fare una bella gita in fuoristrada, per la gioia mia e dei miei lettori che si eviteranno il mio solito noiosissimo pistolotto.


  Genoa, 23 marzo 2006                          Cecco Angiolieri


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