"La mente è come un paracadute, funziona solo se è aperta" - Frank Zappa

 

Giolitti uno di noi

 

Sono tanti i motivi per cui mi dispiace che il Torino rischi di retrocedere in B. Sono molto legato a Torino e alla Torino granata in particolare.

Indipendentemente da questo, ricordo tante retrocessioni rossoblù e so come ci si sente (vogliamo parlare di Genoa Siena, quando il Siena si mise improvvisamente a giocare meritatamente mazzuolandoci?) e mi dispiacerebbe per qualsiasi avversario. Nel mio concetto di sport e di etica non c'é spazio per la gioia per le altrui disgrazie, ma solo per l'esultanza per le proprie vittorie.

Gioire delle sconfitte altrui - insegnava mia nonna - è proprio delle persone meschine e mediocri. Ed è un vizio molto diffuso a Genova, città mediocre e provinciale anche e soprattutto per questa teoria di veti,  invidie incrociate e ghigni da dietro le persiane, unite alla tendenza a largheggiare di vedute solo quando giudica i suoi meriti (preferibilmente, quelli del passato).

Gioire per il male altrui, insomma, non mi è mai piaciuto: ci sono amici che ricordano le mie polemiche per le esultanze genoane in occasione dei - rari - insuccessi blucerchiati (al di fuori dei derby ovviamente). C'è chi ancor oggi mi rinfaccia, ridendo, di avergli rovesciato la Vespa per cercare di impedirgli di andare a De Ferrari a esultare nel dopo Berna ... 

Mi dispiace per il Toro, quindi, ma ancor meno capisco i discorsi e i distinguo di certi maître à penser.

Mi colpisce in particolare l'argomento secondo cui sarebbe immorale che una squadra si impegni per vincere per assecondare ripicche e rivalse tra ricchi presidenti. Questo ragionamento mi interessa in astratto, indipendentemente da quanto sia fantasioso ipotizzare che dietro alla vittoria del Genoa di ieri ci siano manovre (siano esse dei Gesuiti o della Spectre) di qualsiasi tipo: in effetti è veramente strano che una squadra giochi per vincere .

Resto infatti sorpreso: credevo che il dovere di lealtà e sportività fosse un dovere obiettivo. Mi sfugge perché far vincere una squadra di "tifosi amici" sarebbe più edificante che giocare seriamente o agevolare una squadra di "tifosi antipatici".

Ho come la sensazione, anzi, a dire la verità, qualche cosa di più, che siamo di fronte a un ennesimo caso di doppia morale italiana, quella che - come la legge per Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842 - Cavour, 1928) "ai nemici si applica e per gli amici si interpreta".

Le vendette e le pastette - ipotetiche - tra tifosi (o gradite ai tifosi) sono forse moralmente lodevoli?

Eppure la cronaca, anche giudiziaria, racconta spesso di tifosi che scommettono contro la propria squadra insieme a tesserati; in varie città d'Italia si sono scoperte contestazioni "per il bene della squadra" motivate da affari sporchi andati male tra tifosi e presidenti...

E invece, secondo la retorica populista che tanto piace a tutti, siano essi di quelli che "urlano ancora" o "ultrà da tastiera", i tifosi sarebbero, tutti, vittime innocenti di speculatori senza morale. Agnelli sacrificali di lupi sbarcati da un pianeta alieno e crudele. Tanti Robin Hood in calzamaglia, poveri e romantici, contro un manipolo di Sceriffi di Nottingham interessati e senza cuore.

Mi sembra la politica nella rappresentazione dei "discorsi da treno" (quando ancora in treno i viaggiatori parlavano tra lorp e non smanettavano su appendici elettroniche del proprio solitario isolamento), dove gli elettori, tutta brava gente che lavora, sarebbero ostaggio di politici che rubano tutti.

È proprio vero che gli unici conflitti di interesse da denunciare sono quelli altrui e che, come dice Fabrizio de Andrè, "la gente dà buoni consigli se non può dare cattivo esempio".

 

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Principe Myskin

 

Genoa, 25 maggio 2009