Senza trovare un fottuto perchè

 

 

Prima o poi, qualcuno ce la farà. Un bel foglio bianco. Una schermata

vitrea. Un pezzo, un corsivo, un editoriale, un fondo, perché più in fondo

di così non si può neanche scavando, però bianco, vitreo, vuoto. O rosa, se

si tratta della carta della "Gazzetta dello Sport". Perché non ci sono

parole, discorsi, frasi di circostanza e necrologi, non ci sono prediche,

promesse e racconti, non c'è inchiostro né piombo né edizioni teletrasmesse

e poli di stampa che possano spiegare il mistero della morte, che poi

sarebbe anche il mistero della vita: in particolare la morte, che poi

sarebbe la vita, di Gianluca Signorini.

Ma quando si scrive e poi si leggerà questo pezzo in memoria di Gianluca

Signorini, non rimangono che parole. Semplici, nude e crude, più o meno

intonate o indovinate, oppure banali, trite e ritrite: parole. E le parole

entrano ed escono, volano, soprattutto volano via. Ed è difficile, quasi

improponibile spiegare quello che resta di un uomo, Signorini, con mezzi

così inadeguati, inappropriati, inopportuni, come le parole. Bisognerebbe

fare come ha fatto Andrea, il terzo dei quattro figli di Gianluca e

Antonella, 12 anni: ieri ha chiesto di guardare in una videocassetta una

partita del papà, perché da tre anni lo vedeva imprigionato su una sedia a

rotelle; e ha chiesto di sentire un'intervista per ascoltare la sua voce,

perché da tre anni Gianluca gli parlava solo con gli occhi.

Due passi indietro, e sembra quasi un secolo fa. Innanzitutto una brillante

carriera, formidabile se si considera che ha giocato in serie A, B e C, che

è stato un capitano, che ha conquistato un quarto posto in campionato e una

semifinale in coppa Uefa, però una carriera addirittura normale se la

giudichiamo con quel delirio di onnipotenza in cui le nostre vite sbandano

fra realtà e finzione, fra segreti e trucchi, fra circoli viziosi e virtuali

senza mai sfiorare quelli virtuosi. Parole. Poi una bella famiglia: Gianluca

aveva conosciuto Antonella nei corridoi dell'istituto geometri, lui aveva 18

anni, lei 16, lui faceva il calciatore, lei no, dopo tre anni lui le ha

chiesto di sposarlo, lei ha risposto sì. E da lì quattro figli: Alessio, che

ha 20 anni, Benedetta, 19, Andrea, 12, e Giulia, 3. Come dire che, fra

gravidanze e allattamenti, Antonella ha trascorso un terzo del suo

matrimonio sballottata in tempeste ormonali e Gianluca, complice, l'ha

trascorso svegliandosi ai quei mille misteriosi pianti notturni infantili

che vengono un po' sbrigativamente liquidati come «mal di pancia». Parole.

Sapendo che il giorno dopo lui avrebbe giocato contro il Milan o la

Juventus.

Adesso un passo avanti rispetto ai due indietro e comunque sembra anche

questo un secolo fa. E invece era soltanto tre anni fa. Tre anni eterni. Un

braccio che non risponde, una gamba che fa finta di niente, una mano che ti

verrebbe voglia di ammonirla per simulazione. E invece no. E' una malattia

che non va mai in fuorigioco, che fa pressing a tutto campo, soffocante,

opprimente. E' una malattia contro cui non potrebbe farci nulla né la dolce

umanità di Bagnoli né la vulcanica aggressività di Scoglio. E' una malattia

contro cui Signorini ha lottato come ha sempre fatto sul campo: spazzando,

liberando, rilanciando, incitando, contagiando - parole, gerundi - con la

sua sicurezza e la sua calma e la sua forza i compagni, in questo caso

Antonella e i ragazzi. Una partita quasi infinita. La partita della vita.

Il novantesimo minuto è scoccato martedì notte. Puntuale, come Dio comanda.

Maledettamente in ritardo, supplementari di supplementari, perché quella non

poteva più essere chiamata vita, perché Gianluca era già morto, perché aveva

già celebrato il suo funerale il 24 maggio 2001, a Marassi, assistendo a una

partita dove c'erano i suoi compagni, i suoi allenatori, i suoi amici, la

sua gente, il suo popolo e c'erano anche la moglie e i figli. Un funerale,

il suo funerale, cui ha partecipato con tutto se stesso: cioè i suoi occhi,

che ringraziavano, piangevano, urlavano, correvano. Parole, anche se non lo

erano già più. Signorini in carrozzina sotto la gradinata Nord è una di

quelle immagini cui è umanamente impossibile resistere. Non c'è fiume di

lacrime che tenga né strizzamento per il cuore né centrifuga per i

sentimenti. Chi quella sera era appollaiato lì, sconvolto dai ricordi,

magari con una maglia rossoblù, ricorderà per sempre, nei secoli dei secoli,

con tanto di amen.

Adesso non rimane che spiegare, sempre con queste inadeguate parole, perché

mai c'è tanta commozione per Signorini, come se lui fosse nostro fratello o

padre o amico. Perché era l'ultimo dei giocatori «quelli di una volta», un

eroe romantico, un tronco cui aggrapparti quando eri solo nell'oceano e non

ti veniva in mente neanche il nome di un santo da invocare, un dannato

privilegio che sembra investire solo i numeri 6, da Picchi a Scirea.

E per i genoani, strana gente, Signorini era ancora di più, molto di più.

Era la drammatica incarnazione della sofferenza. La Sofferenza. Quella che

rende ogni partita del Genoa come il doveroso appuntamento settimanale per

donare - non si sa bene a chi - mezzo litro di sangue, un paio di cornee e

un rene. Quella che trasforma ogni sconfitta del Genoa in un dramma

personale. E quella che, nonostante tutto, anzi, in nome di tutto, ti spinge

a indossare la maglia del Genoa - Gianluca con la sua casacca numero sei -

nella bara.

Rimane il mistero. Della morte, cioè della vita, di Gianluca Signorini e

anche nostra. Ma è bello sapere che un pallone rotondo, ma volendo anche

ovale, di cuoio, di plastica o di stracci, ci abbia costretto, anche

attraverso un supremo sacrificio, a pensare a tutto questo. Senza trovare un

fottuto perché. Ma questo è solo uno stupido dettaglio. Perché tanto, il

perché, non lo sapremo mai. Almeno a parole.

Marco Pastonesi