Leghe da legare

Il futuro del pallone, tra Calciopoli e l'Antitrust


Mentre i media e i tifosi (i primi chissà se casualmente e i secondi chissà se consapevolmente) si occupano del gran circo del calciomercato, qualcosa bolle nel pentolone del pallone. Con gran probabilità, si tratta di una minestra riscaldata. Sarebbe però bello saperne qualcosa in più. Ospitiamo, allora, un primo intervento in proposito (di Alberto Marcheselli, dal sito della Fondazione Genoa). E' una analisi dello stato e del futuro del calcio, alla luce degli ultimi eventi e delle lotte sotterranee in corso. Per leggerlo ci vuole qualche minuto, un po' più di calma e di attenzione che non a sorbire una velina di telegiornale, ma ci pare ne valga la pena.

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1. Premessa.

Una delle frasi più sagge è quella secondo cui chi non conosce il passato è condannato a riviverlo.

Può essere istruttivo tentare di applicarla anche alle vicende calcistiche dell'ultimo biennio, avendo di mira l'obiettivo di fornire qualche strumento di analisi dei fatti che stanno accadendo nelle istituzioni sportive, per evitare gli errori del passato e trarne insegnamento anche in altri campi.

Cercheremo di attenerci ai fatti e ai documenti ufficiali, tralasciando il livello delle dichiarazioni roboanti e più o meno intenzionalmente depistanti urlate dai protagonisti.

Esaminiamo qui allora quattro documenti:

a) la relazione presentata dal Commissario Straordinario della Federcalcio Prof. Guido Rossi il 12 luglio 2006 alla Commissione Cultura della Camera;

b) la relazione presentata dal nuovo commissario Avv. Pancalli alla medesima commissione il 6 dicembre del 2006;

c) il nuovo regolamento del settore arbitrale (AIA), approvato nel novembre 2006 e

d) il rapporto redatto dall'Antitrust al termine della Indagine sul calcio italiano, depositato il 5 gennaio 2007.


2. Il Calcio di Calciopoli

Un opportuno punto di partenza si trova nelle parole del Prof. Rossi, che tracciò al Parlamento, in una occasione solenne (la audizione del 12 luglio 2006), il quadro del calcio italiano con queste parole: “l'aspetto più preoccupante della crisi del sistema calcio è la cattura e l'asservimento ad interessi di parte dei vertici e degli organi di controllo della FIGC e delle sue componenti più importanti (si pensi all'Associazione Italiana Arbitri): indipendentemente dalla rilevanza penale e/o per la giustizia sportiva, il cuore dello scandalo è la fortissima capacità di condizionamento ed influenza dei e sui soggetti che avrebbero dovuto garantire, in posizione di terzietà, la regolarità dei campionati, la corretta distribuzione delle risorse economico finanziarie, l'esistenza di meccanismi elettivi dei vertici federali realmente democratici.

Pressoché tutte le funzioni di controllo e di garanzia delle nostre istituzioni sportive, invece, sono, o sono state nel recente passato coinvolte da indagini: le commissioni arbitrali, l'antidoping, gli organi inquirenti e i tribunali sportivi. Ma non solo. La perdita di indipendenza e terzietà dei vertici federali e degli organi di controllo, cioè dei soggetti deputati a garantire il rispetto delle regole del gioco, è stata accompagnata e forse resa più agevole dal venire meno di altri sistemi di controllo, quelli esterni. Mi riferisco anzitutto al sistema dei media, anch'esso in parte legato agli interessi dei soggetti dominanti il sistema; penso anche al mal costume di richiedere, autorizzare o pretendere trattamenti di favore per società, dirigenti e giocatori che hanno violato le regole del gioco, motivandoli con la strumentale e falsa esigenza di salvaguardare la passione e gli interessi dei tifosi.”

Tale analisi, certamente impietosa, trova, lungi da una smentita, una precisa conferma negli atti successivi.

I punti critici, a ben vedere, sono sostanzialmente tre: gli squillibri economici, le carenze ordinamentali e i vizi culturali del settore calcistico.


3. I soldi del calcio

Sotto il primo aspetto, è particolarmente interessante il rapporto 5 gennaio 2007 dell'Autorità garante della Concorrenza e il Mercato. Essa, pur partendo dall'ottica che le è propria (quella economica e dalla angolatura particolare della garanzia della concorrenza) dipinge un quadro estremamente negativo.

Il pallone, nel suo complesso, rappresenta, innanzitutto, il tredicesimo gruppo industriale italiano, con un fatturato annuo complessivo di oltre 4.200 milioni di euro. Può far storcere il naso quanto si vuole, ma, per numero di addetti e movimento di denaro, esso è una realtà di tutto rispetto. In Italia, insomma, nessuno, per quanto intellettuale raffinato sia, si può disinteressare del calcio: già solo sotto il profilo del gettito fiscale (del denaro cioè che lo Stato trae dal settore per finanziare la spesa pubblica tramite le imposte) esso è addirittura fondamentale. Per dirla provocatoriamente, senza i goal di Del Piero o Gilardino avremmo certamente avuto e avremmo qualche ospedale in meno.

Le società calcistiche, poi, presentano, in genere e salve le eccezioni, alcuni dei vizi propri del capitalismo italiano: la dimensione personale o al massimo familiare, l'assenza di visione strategica e una certa fragilità strutturale. Le società calcistiche, insomma, più che imprese industriali solide, appaiono realtà finanziarie assai volatili. Esse vivono, essenzialmente, su due fonti di reddito: i proventi televisivi e gli incassi dei biglietti (con un crescente peso della prima voce rispetto alla seconda) e hanno una gestione che sembra non occuparsi adeguatamente né di mantenere l'equilibrio rispetto ai costi, né di difendersi dal carattere aleatorio e temporaneo delle loro fonti di guadagno.

L'approccio che caratterizza la gestione, insomma, sembra essere, forzando un po' il concetto e salve le virtuose eccezioni, quello del “tanto paga Pantalone”. Dove Pantalone può essere lo Stato (e quindi tutti, salvo i furbi), nel caso di costose e annose rateizzazioni dei debiti fiscali, ad esempio. Oppure possono essere i correntisti di banche un po' troppo generose nell'erogare credito alle società calcistiche. Oppure possono essere i creditori (e i tifosi), nel caso in cui la società calcistica vada al fallimento senza riuscire a pagare i suoi debiti.

Si tratta, insomma, dei vizi di impostazione che hanno determinato tanti crack finanziari saliti agli onori delle cronache, negli ultimi tempi e in altri settori: essi non sembrano estranei al settore calcio.

L'Antitrust osserva, e si tratta di una ovvietà, che l'unica medicina possibile è o l'aumento dei ricavi, o la riduzione dei costi. Sotto il primo aspetto, esclusa la via della quotazione di Borsa (che implicherebbe semplicemente scaricare sui risparmiatori le inefficienze della gestione, mettendo loro in mano il cerino dei debiti delle società calcistiche), sono indicate quelli dell'incremento del merchandising (vendita di prodotti griffati) o della diversificazione, in particolare attraverso l'assunzione in gestione degli impianti sportivi. Alla prima via si oppone la diffusione capillare del fenomeno dei marchi falsi, alla seconda, sostiene l'Antitrust, lo stato di obsolescenza degli impianti sportivi e la gestione eccessivamente burocratica degli impianti sportivi da parte degli enti pubblici proprietari. Appare degno di nota che l'Antitrust si occupa espressamente, in proposito, dello stadio Luigi Ferraris di Genova, per dire testualmente: “Un esempio da rimarcare positivamente è stata la ristrutturazione dello stadio “Marassi” di Genova, che potrebbe rappresentare oggi un modello di riferimento di impianto sportivo esclusivamente dedicato al calcio.


4. (segue) i ricchi e i poveri.

Il vero punto dolente del sistema è tuttavia, ancor più che nella cattiva gestione delle risorse economiche, nella loro ingiusta distribuzione.

Il meccanismo che prevede che le squadre contrattino separatamente i compensi per i diritti televisivi ha fatto sì che la differenza tra gli introiti delle tre squadre più grandi rispetto alle altre sia abnormemente maggiore che in qualunque altro paese europeo e che, parallelamente, abnormemente maggiore sia lo squilibrio dal punto di vista dei risultati sportivi. Il che ha innescato il meccanismo per il quale la squadra di medio o piccolo cabotaggio si trova nella oggettiva impossibilità di competere e nella oggettiva dipendenza dalle squadre di grandi dimensione. Ciò sia nel senso che, paradossalmente, una quota rilevante degli introiti delle squadre medio piccole è determinata e dipende dai guadagni delle squadre grandi (attraverso la cosiddetta mutualità: una quota dei diritti televisivi spettanti alle grandi squadre viene riversata alle medio piccole ed è, notate bene, pari o addirittura maggiore agli altri incassi di quest'ultime). Sia nel senso che hanno avuto una patologica diffusione i prestiti di giocatori.

L'esito di tale sistema è che per le squadre diverse dalle tre più grandi, vincere o perdere in campo (salva la conquista di coppe europee o retrocessioni) è diventato talora economicamente quasi indifferente e che, come è stato sotto gli occhi di tutti, le tre squadre più importanti (Inter, Juventus e Milan) si sono trovate nella condizione oggettiva di dominio assoluto, economico e sportivo, della realtà calcistica italiana.

Poiché, nel medio termine, la sopravvivenza del calcio dipende dalla sua appetibilità come spettacolo e poiché un valore fondamentale perché ci sia tale appetibilità è la suspence, la (relativa) imprevedibilità dei risultati del campionato, si impone una decisa correzione.

Questa non può che passare per l'abolizione del sistema di negoziazione individuale dei compensi televisivi. La contrattazione deve essere collettiva e, come osserva l'Antitrust, deve essere tale che ben più della metà sia divisa in parti uguali, una quota significativa devoluta al finanziamento dello sport (o del calcio) in genere e il resto distribuito in proporzione ai risultati sportivi (e non ai bacini di utenza, privilegiandosi il merito).

Le obiezioni che si levano contro questa proposta sono tutte speciose e interessate. Il calcio, innanzitutto, non è un settore economico come gli altri: se gode di notevoli vantaggi e agevolazioni è perché è considerato socialmente utile. Ma se deve essere socialmente utile non può essere governato dalla logica dell'accaparramento puro dei guadagni. E, in ogni caso, anche a non voler condividere questo, resta il fatto che, senza equilibrio tra i competititori, lo sport è condannato a morte, per carenza di attrattiva.

E questo deve tenersi nel massimo conto da parte di tutti.


5. Il diritto dello sport

Non meno interessanti sono i profili giuridico - istituzionali della questione. Così come economicamente il calcio riproduce i vizi del sistema economico generale, esso riproduce anche le patologie delle istituzioni extrasportive.

Il difetto strutturale più grave è, a ben vedere, la carenza del concetto stesso di istituzione, ovvero di una distinzione chiara tra cosa sono gli interessi di parte e cosa sono gli organi chiamati a regolare gli interessi, stabilire le regole, decidere le controversie.

Tra le tante patologie corrispondenti a tale schema, due sono (state ?) le più evidenti.

La prima è quella del peso abnome assegnato alla Lega Nazionale Professionisti rispetto alle decisioni sull'organizzazione del settore calcistico complessivo. Evitando i tecnicismi noiosi, è sufficiente rilevare che il peso assegnato a tale Lega (e a quella di Serie C) nell'ambito della Federazione Italiana Gioco Calcio è stato eccessivo (a scapito delle rappresentanze degli atleti, degli arbitri, degli allenatori, dei dilettanti). Ciò ha comportato che allo squilibrio economico e sportivo, sopra descritto, tra grandi squadre e altre squadre, si è aggiunto lo squilibrio rappresentato dal fatto che, in buona sostanza le grandi squadre hanno dettato le regole del gioco valide per tutti. Il calcio, insomma, è stato un condominio nel quale non solo gli i servizi condominiali sono stati riservati a quelli dell'attico, ma nel quale sono quelli dell'attico a decidere pressoché ogni cosa.

A quanto è dato di capire è questo, oltre che il profilo della distribuzione degli incassi televisivi, il grande motivo dello scontro in atto.

Lo scenario è abbastanza incerto, ma la resistenza delle Leghe Professionistiche appare decisamente pugnace ed efficace. E un primo obiettivo sembra averlo ottenuto visto che, nel disegno di legge che dovrebbe regolare la distribuzione dei diritti televisivi, il compito di distribuirli viene affidato, di fatto (semplificando un po' il concetto) alle stesse Leghe. Il che, tradotto in parole povere, equivale a dire che Tizio, Caio ed io stiamo in società in parti uguali, ma come si dividono i guadagni lo decido comunque io.

Qualche progresso maggiore è stato invece fatto nel settore arbitrale. In esso è stato innanzitutto limitato il potere di ingerenza delle Leghe (si scrive Leghe ma si legge, di fatto, squadre più importanti) nella scelta degli organi dell'associazione arbitri (e in particolare dei designatori) e si è aumentato il peso degli organi collegiali e rappresentativi (la cui indipendenza è più difendibile che non quella dei singoli).

Si tratta di passi avanti notevoli, in teoria.

Resta tuttavia incomprensibile perché non ci si rimetta, in proposito all'unico sistema veramente equo: il sorteggio arbitrale integrale. Sfugge, infatti, perché ci debba essere un organo che decide (semplificando anche qui il concetto) quale arbitro impiegare per il Milan e quale per il Chievo. Anche ammesso che gli arbitri possano classificarsi per bravura, è chiaro che la bravura serve rispetto alla difficoltà del problema da risolvere. E non si comprende perché dovrebbero essere complicate, tecnicamente, le decisioni da prendere nell'area dell'Inter che non in quella dell'Ascoli.

Il fatto che nell'unico anno in cui si è praticato il sorteggio integrale lo scudetto lo abbia vinto il Verona, continua, insomma a gettare un'ombra sul sistema.

6. L'etica del calcio

A ben vedere, però il dato più negativo che emerge dall'analisi è una complessiva carenza di etica sportiva.

Essa però non sembra potersi attribuire, come forse sarebbe comodo, solo alle bistrattate dirigenze delle società calcistiche.

Continua a risultare un po' sorprendente, per fare un solo esempio tra i tanti possibili, che non abbia fatto sensazione (nel pubblico, sui media, non nel ristretto circolo dei giuristi), tra le tante vicende recenti della cosiddetta calciopoli, un passaggio della motivazione di una sentenza, nella quale si è, in buona sostanza, affermato che uno dei colpevoli meritava una notevole attenuante perché, pur avendo commesso dei comportamenti scorretti, aveva ottenuto grandi risultati sportivi.

Questo passaggio, trasportato nell'ambito della giustizia penale e forzando un po' il concetto, equivarrebbe a riconoscere una attenuante per chi abbia rubato sì, ma si sia arricchito molto.

Ne risulta evocata per un tratto un'immagine, non particolarmente consolante, di un'Italia che soprattutto ama (e si identifica con) i furbi, di uno sport a cui sembrano difettare, prima ancora delle regole, gli sportivi.

Il lavoro da fare è molto, e il primo passo è guardare in faccia la realtà, isolarne i tratti positivi e dar loro spazio.

 

 

Genoa, 9 gennaio 2007

 

 

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