Quelli che il Grifone - di Fabrizio Calzia
 

Prefazione
Di Gessi Adamoli e Marco Peschiera

“Sei genoano e vuoi anche vincere?”, è una battuta che Pippo Spagnolo, uno che da una vita mangia pane e Genoa, ripete abitualmente e che è illuminante nella sua semplicità. Chi sceglie il Genoa fa una scelta a 360 gradi in cui il risultato del campo è davvero l’ultima cosa a contare.
Essere genoani non è solo fare il tifo per una squadra di calcio: è una scelta di vita. È la scelta di chi, in un mondo in cui sembra esserci spazio solo per vincenti e rampanti assortiti, ha deciso di stare contro. E c’è nell’essere genoani quell’orgoglio di appartenenza che la penna di Fabrizio Calzia ha saputo tratteggiare con grande abilità perché anche lui sta da quella parte. Sta dalla nostra parte.
Genoani si nasce? Io lo sono nato e lo sono diventato. Come il 90 per cento dei genoani, anch’io avevo un nonno che mi portava per mano allo stadio. Il nonno Gelasio la sua giovinezza l’aveva vissuta nel mito di Giovanni De Prà e quando dovette lasciare l’Abruzzo per iscriversi all’università scelse quella di Genova perché c’erano il Genoa e De Prà. Adesso potrebbe sembrare una scelta singolare, ma all’epoca il Genoa era come il Milan o la Juventus di adesso. E quante volte ricordo di aver fatto, all’uscita dello stadio, l’allora via Del Piano (mi è sembrata una magia che poi fosse dedicata proprio a De Prà) con il nonno e con il signor Giovanni che, oltre 40 anni dopo, regolarmente raccontava gli spareggi con il Bologna e lo scudetto scippato (sarebbe stato quello della stella). E il nonno regolarmente stava a sentire in religioso silenzio.
L’altro nonno, Enrico, che pure non tifava per nessuna squadra si sarebbe divertito un mondo a fare uno sgarro a Gelasio facendomi diventare sampdoriano e una volta a Pasqua arrivò a regalarmi un enorme uovo blucerchiato. Per qualche anno non presi posizione, dalla tribuna scrutavo le due gradinate: la Nord, che mi sembrava austera e quasi mi metteva soggezione, e la Sud con quei colori da “Arlecchino” come li definisce Calzia. Poi, un bel giorno di 35 anni fa, senza alcun preavviso, scattò la molla: il dna aveva fatto il suo corso naturale.
Mio figlio Emiliano nel suo lettino ha un adesivo che gli hanno regalato Emanuele e Riccardo Bozano, i figli di Edoardo e Augusto (naturalmente genoani come i padri ed il nonno): una cicogna che porta un bimbo e la scritta “genoani si nasce”. Anche Emiliano, quando sarà più grandicello, sarà chiamato superare quelle prove che attendono quotidianamente chi fa la scelta del cuore e non della ragione. Ma noi genoani siamo in buona compagnia. È un destino comune a molte squadre che sono le più seguite delle rispettive città. Vedi gli amici e fratelli del Torino, ma anche il Manchester City, la squadra del popolo e per cui tifa anche Ken Loach, il più grande regista inglese (in un suo film due operai in cassa integrazione parlano tra loro durante una manifestazione e uno dice all’altro: “È proprio un momentaccio, c’è anche il City che continua a perdere…”) , il Monaco 1860 in Germania e lo Sporting Lisbona in Portogallo. Troppo facile vincere sempre: che gusto c’è?
Tutto questo, cosa significa essere genoani, Calzia ha provato a raccontarcelo mettendola sul ridere, ma in qualche passo invece ci ha fatto commuovere.

Gessi Adamoli


Fabrizio De André raccontava di essersi innamorato del Genoa a sette anni, un pomeriggio del 1947 quando suo padre Giuseppe lo portò a Marassi a vedere il Grande Torino di cui era acceso tifoso. Una partita senza storia: i Mazzola, i Gabetto, i Grezar, i Loik a mostrare meraviglie e i Grifoni frastornati e rassegnati. Un gol all’inizio del primo tempo, un altro alla ripresa, il terzo alla mezzora. Con De André padre ad applaudire felice.
Ma all’ottantacinquesimo il Genoa si scuote dal suo torpore: tre a uno e tutti all’assalto, un calcio di rigore ed ecco il tre a due, un altro fiero arrembaggio e la folla comincia a sperare, nell’ultimo minuto si libra sul campo il gran sabba della volontà e in extremis soltanto un palo salva il Toro dalla clamorosa rimonta. Il Genoa perde quella partita ma in cinque minuti conquista un tifoso per la vita.
Fabrizio restò per sempre dalla parte dei vinti di tutto il mondo: ma nelle sue poesie in musica gli sconfitti e gli esclusi – puttane e indiani perseguitati, malfattori e spiriti ribelli – trovano sempre la rivincita morale sul bigotto e il moralista, sul potente e sui suoi servi corrotti.
Lo stato d’animo del genoano è quello degli spiriti ribelli di De André: lasciamoli godere, tutti gli altri, delle loro vittorie. E osserviamoli con comprensione le volte che la sorte gli diventa avversa. Ridano pure o piangano pure intorno alle piccole vicende di un pallone che rotola. Noi li guardiamo dall’alto e con distacco perché potranno vincere una partita o venticinque o mille ma hanno perso il campionato più importante: loro, il destino li ha condannati a vivere senza nemmeno immaginare che cosa significa essere genoani.
È questo ancestrale, filosofico istinto di superiorità a fare del genoano un esemplare unico: il genoano è l’unico seguace del calcio dotato della capacità di ridere e scherzare su se stesso. Diciamoci la verità: in quale parte del globo terracqueo si potrebbe riuscire a trovare un’intera generazione di tifosi in grado di sciorinare, a trent’anni di distanza e senza un fiato di pausa, la formazione di un campionato di serie c? La ricordiamo a chi non c’era: Lonardi; Rossetti, Ferrari; Derlin, Benini; Turone; Perotti, Maselli, Cini, Bittolo, Speggiorin. Rileggere e mandare a memoria: è la preghiera laica del genoano vero.

Marco Peschiera


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