Juan Carlos Verdeal

da Il Secolo XIX del  1° e 2 novembre 2004 -di Claudio G. Fava e Fabrizio Calzia

 

 

CLAUDIO G. FAVA: Non so se sarò mai capace di restituire per iscritto o a voce (sempre di parole si tratta, e le parole è pur necessario organizzarle), l'aria fredda e grigia - anche se alle finestre c'era il sole - i sussulti di agitazione e di atonia, le curiosità sbrindellate e le noie compatte di quelle mattinate invernali degli anni scolastici dal 1945 al 1947. C'eravamo ritrovati nelle penombre famigliari del Vittorino da Feltre usciti dalla guerra. Sino a pochi anni prima eravamo" babanetti", normali studenti delle scuole medie. Le nuove scuole medie uniche, quelle introdotte, proprio con la mia classe, dalla riforma Bottai e credo, in fondo, conservate sino ad ora. I bombardamenti, lo sfollamento, la tragedia senza nome che era piombata sull'Italia, ci avevano restituiti a Genova invecchiati di pochi anni, ma già intrappolati nel cammino riottoso dell'adolescenza - eravamo tutti foruncoli e sigarette americane di contrabbando comprate sulle bancarelle - perduti nelle nebbie di un Liceo subitamente troppo difficile e severo per noi.
Personalmente mi ricordo pochi bagliori di luce, nel tetro rituale dei compiti e delle interrogazioni. I libri, certo (Tolstoi, Hemingway, Dos Passos ma anche gli amatissimi polizieschi americani). I film, nelle famigliari caverne delle sale di via XX Settembre dove sono cresciuto (un decennio dopo il cinema sarà già un mestiere. Qualche decennio dopo molti di quei film li avrei programmati in Televisione). E il calcio alla domenica. In un'epoca senza televisione: o lo si vedeva negli avari spezzoni dei cinegiornali Incom o dal vivo, al Ferraris, ove aveva conservato una parte della magica fascinazione che ci aveva rapito nell'infanzia. E di colpo, a partire dall'ottobre del 1946 (appunto la Terza Liceo del Vittorino e poi i primi due distratti anni di Università), in quelle domeniche troppo brevi - svanivano in un attimo i 90 minuti di Marassi - in quei freddi lunedì di scuola o di lezioni, in via Anton Maria Maragliano o in via Balbi, dentro il ricordo del Genoa c'era una persona. Un'immagine bionda, agile, elegante, composta, sdutta, un corpo alto e nordico nella struttura - la madre si chiamava Rosso, nome presumibilmente piemontese - un curioso viso diseguale, poco latino. Ed un'eleganza di palleggio e di moto, che doveva scolpirsi per sempre nel cuore dei genoani di allora, dei ragazzi dei tardi anni '40, divenuti ormai, dopo quasi sessant'anni, dei vecchietti che non hanno dimenticato nulla.
Tutto era romanzesco in Verdeal. Era giunto non giovanissimo e quasi ignoto a Genova, proveniente credo dal Brasile, senza i grandi clamori che avevano circondato gli argentini comprati da altre squadre più ricche. Niente di tutto ciò con Juan Carlos. Dopo essersi abituato alle esigenze di un calcio più veloce e meno "ballato" di quello sudamericano d'epoca - il cosiddetto "sistema inglese" introdotto dal "Genova" di Garbutt nell'immediato anteguerra era ormai adottato praticamente da tutti e portato alla perfezione dal Torino di Valentino Mazzola - rapidamente vi si installò con la sicurezza del campione. Perché si fosse fatto conoscere così tardi e solo fuori delle due patrie d'origine, nessuno lo ha mai capito. Ma non v'è dubbio che in quel calcio italiano postbellico Verdeal si installò rapidamente. L'eleganza del dribbling e la dolcezza felpata, tutta argentino-brasiliana, del passaggio rasoterra gli consentirono rapidamente di prendere in mano la squadra e di innestare sulla sicurezza centro-difensiva dei Cattani, dei Capellini, dei Sardelli, dei Becattini, dei Bergamo una pericolosità di risposta che se Verdeal fosse stato aiutato da giocatori del suo valore avrebbe portato a risultati ancor più clamorosi di quelli raggiunti. Purtroppo i Bonistalli, gli Aebi, i Verderi con cui giocò erano d'altra pasta. Ciononostante la sconvolgente semplicità di certi suoi allunghi sulla sinistra del fronte d'attacco (con il gioco d'allora era più facile effettuarli: ben lanciata, e saltato il suo terzino marcatore fisso, un'ala si trovava magicamente libera) gli consentì di inventare come attaccante di valore nazionale un giocatorino veloce ma fragile che si chiamava Della Torre (Verdeal lo impose di forza all'attenzione degli italiani). Furono tre anni magici - mi ricordo ancora in Terza Liceo al lunedì mattina certi incontri con un mio compagno di classe, Dodi Grondona, che dopo la maturità non ho mai più incontrato: "Hai visto Verdeal ieri? Hai visto Verdeal ieri?" e si restava senza parole, abbacinati) - bruscamente interrotti. Il giocatore partì per non più ritornare e un filo magico si spezzò. O parve spezzarsi, perché in realtà non si interruppe mai completamente. Lo si rivide limpido e intatto nel 1976 quando Verdeal tornò magicamente a Genova per un toccante omaggio (stavo a Roma allora e ne gioii a distanza). Lo si rivede adesso. Quando le ricerche di Calzia hanno fatto balzare d'improvviso, da un passato ormai remoto, il sapore rotondo, spietato e insieme dolcissimo e profumato dei ricordi di giovinezza. In chi non rinuncerà mai a quella maglia rossoblu che ondeggiava al Ferraris come una spiga di grano, con gli avversari scartati improvvisamente in una sorta di splendida "camera car" calcistica. Non lo dimenticheremo mai, Juan Carlos, bandiera esile ed elegante di un passato splendidamente scomparso.

Claudio G. Fava

 

 

Juan Carlos Rosso Verdeal, il figlio che porta lo stesso nome del grande 
numero 10 rossoblù, è medico cardiologo. La sua voce è pacata e 
cordiale, forse un po' stupita per l'interesse ancora vivo nei confronti 
del padre. Per il popolo genoano suo padre è una leggenda, gli 
confermiamo. Ma sembra faticare un po', il figlio, a immaginare come 
quella persona tranquilla e discreta che lui ha conosciuto possa avere 
risvegliato, tanti anni or sono, tale straripante entusiasmo. «Mio papà 
aveva un carattere molto riservato, in particolare negli ultimi anni, 
dopo la morte di mia mamma, Carmen Rosso».
Carmen Rosso, la signora Verdeal, era brasiliana, di padre italiano e 
madre spagnola. Juan Carlos l'aveva conosciuta negli anni Quaranta e 
quando, a fine carriera, passò da Rio prima di tornare a Buenos Aires, 
le chiese di sposarlo. «Credo fosse il 1955 - racconta Juan - Mio papà 
aveva più di 35 anni ma giocava ancora in Algeria, però quando scoppiò 
la rivoluzione ritenne saggio fare i bagagli. Prima ancora, in Francia, 
aveva indossato la maglia del Valenciennes, squadra di serie B che, con 
il suo apporto, arrivò a giocare la finale di Coppa nel 1951». Verdeal e 
signora approdano a Buenos Aires ma neppure lì la situazione è 
tranquilla, per la drammatica caduta di Peròn. Ad ogni buon conto 
rimangono. Nel 1957 nasce Juan Carlos, e due anni dopo Leandro, oggi 
affermato musicista. «Mio papà ci raccontò poco o nulla della sua vita 
da calciatore - ricorda ancora Juan - Pensava soprattutto alla nostra 
educazione, alla scuola». Ma non aveva chiuso con il calcio, Verdeal, 
che a Buenos Aires allenava fior di squadre: nel 1962 sedette sulla 
panchina dei campioni del Racing (prima di lui occupata dai "genoani" 
Boyé e Stabile), nel 1966 su quella del Club Atlético Almagro. Senza 
contare che nel 1963 fu fra i fondatori dell'Associazione Allenatori 
d'Argentina. «Ricordo appena una sua intervista in tv. Allenava più che 
altro per passione ma, lo ripeto, cercava di non portare a casa il 
fùtbol. Con noi figli insisteva soprattutto sullo studio delle lingue. 
Lui ne parlava quattro (spagnolo, italiano, francese e inglese) e non 
c'era giorno che non ci desse personalmente lezioni di inglese. Continuò 
così, fino a quando avevo quindici anni».
«Papà era questo: rigoroso, con sé stesso e con gli altri. Non c'era 
giorno che non facesse ginnastica in casa, in più era un accanito 
lettore. E pensi che leggeva sempre in piedi, per non incurvare le 
spalle. Per non dire di quando, da allenatore, seguiva le partite in tv 
togliendo l'audio per non farsi influenzare dal cronista: tutti indizi, 
per noi figli, di una personalità spiccata». Nel racconto di Juan Carlos 
junior c'è una data significativa per la vita sua e di tutta la 
famiglia. Nel 1968 i Verdeal si trasferirono a Rio de Janeiro: «A soli 
50 anni papà chiuse una volta per tutte con il calcio. Non conoscemmo 
mai il motivo. In Brasile fece per un po' l'insegnante di lingue 
straniere, poi il suo carattere riservato prese il sopravvento. Si 
ritirò ai suoi esercizi fisici, alle sue letture, alla vita nel suo 
piccolo nucleo familiare».
Ci fu un solo strappo alla regola di non occuparsi più di calcio: «Nel 
1976 fu invitato a Genova dai suoi tifosi. Quell'invito lo stupì e lo 
emozionò enormemente. Non avrebbe mai immaginato, dopo tutti quegli 
anni, tanto entusiasmo e tanto affetto intorno a sé, e il suo cuore 
faticò a reggere tanta emozione. Al ritorno a casa mi regalò la sua 
maglia di lana rossoblù con il numero 10. Gli regalarono pure una 
stupenda cravatta blu, con il Grifone contornato dai nove scudetti. La 
maglia la conservo ancora tra le mie cose più care. La cravatta no, 
quella non l'ho più. La porta papà. L'ha voluta lui, per sempre».

Fabrizio Calzia