Juan Carlos Verdeal da Il Secolo XIX del 1° e 2 novembre 2004 -di Claudio G. Fava e Fabrizio Calzia |
CLAUDIO G. FAVA: Non so se sarò mai capace di restituire per iscritto o a voce (sempre di parole si tratta, e le parole è pur necessario organizzarle), l'aria fredda e grigia - anche se alle finestre c'era il sole - i sussulti di agitazione e di atonia, le curiosità sbrindellate e le noie compatte di quelle mattinate invernali degli anni scolastici dal 1945 al 1947. C'eravamo ritrovati nelle penombre famigliari del Vittorino da Feltre usciti dalla guerra. Sino a pochi anni prima eravamo" babanetti", normali studenti delle scuole medie. Le nuove scuole medie uniche, quelle introdotte, proprio con la mia classe, dalla riforma Bottai e credo, in fondo, conservate sino ad ora. I bombardamenti, lo sfollamento, la tragedia senza nome che era piombata sull'Italia, ci avevano restituiti a Genova invecchiati di pochi anni, ma già intrappolati nel cammino riottoso dell'adolescenza - eravamo tutti foruncoli e sigarette americane di contrabbando comprate sulle bancarelle - perduti nelle nebbie di un Liceo subitamente troppo difficile e severo per noi.
Claudio G. Fava
Juan Carlos Rosso Verdeal, il figlio che porta lo stesso nome del grande
numero 10 rossoblù, è medico cardiologo. La sua voce è pacata e
cordiale, forse un po' stupita per l'interesse ancora vivo nei confronti
del padre. Per il popolo genoano suo padre è una leggenda, gli
confermiamo. Ma sembra faticare un po', il figlio, a immaginare come
quella persona tranquilla e discreta che lui ha conosciuto possa avere
risvegliato, tanti anni or sono, tale straripante entusiasmo. «Mio papà
aveva un carattere molto riservato, in particolare negli ultimi anni,
dopo la morte di mia mamma, Carmen Rosso».
Carmen Rosso, la signora Verdeal, era brasiliana, di padre italiano e
madre spagnola. Juan Carlos l'aveva conosciuta negli anni Quaranta e
quando, a fine carriera, passò da Rio prima di tornare a Buenos Aires,
le chiese di sposarlo. «Credo fosse il 1955 - racconta Juan - Mio papà
aveva più di 35 anni ma giocava ancora in Algeria, però quando scoppiò
la rivoluzione ritenne saggio fare i bagagli. Prima ancora, in Francia,
aveva indossato la maglia del Valenciennes, squadra di serie B che, con
il suo apporto, arrivò a giocare la finale di Coppa nel 1951». Verdeal e
signora approdano a Buenos Aires ma neppure lì la situazione è
tranquilla, per la drammatica caduta di Peròn. Ad ogni buon conto
rimangono. Nel 1957 nasce Juan Carlos, e due anni dopo Leandro, oggi
affermato musicista. «Mio papà ci raccontò poco o nulla della sua vita
da calciatore - ricorda ancora Juan - Pensava soprattutto alla nostra
educazione, alla scuola». Ma non aveva chiuso con il calcio, Verdeal,
che a Buenos Aires allenava fior di squadre: nel 1962 sedette sulla
panchina dei campioni del Racing (prima di lui occupata dai "genoani"
Boyé e Stabile), nel 1966 su quella del Club Atlético Almagro. Senza
contare che nel 1963 fu fra i fondatori dell'Associazione Allenatori
d'Argentina. «Ricordo appena una sua intervista in tv. Allenava più che
altro per passione ma, lo ripeto, cercava di non portare a casa il
fùtbol. Con noi figli insisteva soprattutto sullo studio delle lingue.
Lui ne parlava quattro (spagnolo, italiano, francese e inglese) e non
c'era giorno che non ci desse personalmente lezioni di inglese. Continuò
così, fino a quando avevo quindici anni».
«Papà era questo: rigoroso, con sé stesso e con gli altri. Non c'era
giorno che non facesse ginnastica in casa, in più era un accanito
lettore. E pensi che leggeva sempre in piedi, per non incurvare le
spalle. Per non dire di quando, da allenatore, seguiva le partite in tv
togliendo l'audio per non farsi influenzare dal cronista: tutti indizi,
per noi figli, di una personalità spiccata». Nel racconto di Juan Carlos
junior c'è una data significativa per la vita sua e di tutta la
famiglia. Nel 1968 i Verdeal si trasferirono a Rio de Janeiro: «A soli
50 anni papà chiuse una volta per tutte con il calcio. Non conoscemmo
mai il motivo. In Brasile fece per un po' l'insegnante di lingue
straniere, poi il suo carattere riservato prese il sopravvento. Si
ritirò ai suoi esercizi fisici, alle sue letture, alla vita nel suo
piccolo nucleo familiare».
Ci fu un solo strappo alla regola di non occuparsi più di calcio: «Nel
1976 fu invitato a Genova dai suoi tifosi. Quell'invito lo stupì e lo
emozionò enormemente. Non avrebbe mai immaginato, dopo tutti quegli
anni, tanto entusiasmo e tanto affetto intorno a sé, e il suo cuore
faticò a reggere tanta emozione. Al ritorno a casa mi regalò la sua
maglia di lana rossoblù con il numero 10. Gli regalarono pure una
stupenda cravatta blu, con il Grifone contornato dai nove scudetti. La
maglia la conservo ancora tra le mie cose più care. La cravatta no,
quella non l'ho più. La porta papà. L'ha voluta lui, per sempre».
Fabrizio Calzia