I Tifosi

di Indro Montanelli - da " I rapaci in cortile - Incontri III - Longanesi 1952

 

In attesa di tornare ad occuparci di calcio giocato, non smettiamo di parlare di calcio attuale. Stavolta lo facciamo con un raccontino di Indro Montanelli.

E' del 1952 ma sembra scritto ieri.

E, piccola sorpresa finale, tra i tanti gioiellini intagliati con la consueta adamantina ironia, potrete cogliere pure un cammeo sul Genoa, i Genoani e il Potere.

 

 

Miracolo a Milano 1950 - 1951

 

Dapprincipio, quando il treno era entrato in stazione a vedere quell'assembramento sulla banchina avevamo pensato che si trattasse d’un ministro; di Tambroni, per esempio, col suo codazzo di prefetti, o di Preti visto che ci si trovava nella zona di Giuffrè. Ma l’animazione era troppo festosa. Forse c’era di mezzo una diva cinematografica o qualche eroina di "Lascia o raddoppia".
Ma poi, prima ancora di veder le facce, capimmo dalle bandiere e dai cartelloni che un corteo di giovanotti faceva svettare sulle proprie teste: era la locale squadra di calcio, che si avviava alla prima partita di campionato in trasferta.
Più che salire, gli undici atleti, le riserve e gli accompagnatori (un paio di dozzine di persone in tutto), vennero issati sullo scompartimento accanto a quello nostro, e immediatamente evocati ai finestrini dove affacciarono le loro teste dalle chiome accuratamente pettinate. Avevano già la stilografica in mano per autografare le cartoline che gli ammiratori porgevano. A uno, una ragazza scalmanata gridò: "Bruno me lo fai un gol". A un altro biondino, un signore anzianotto e distintissimo, che sarebbe stato molto bene sulla poltrona di consigliere delegato di qualche grande azienda (e forse di regola ci sta) disse solennemente: "L’onore dei nostri colori cittadini è affidato soprattutto a lei". Il biondino fece un sorriso ebete.
Poi si seppe ch’era uno svedese che non sapeva ancora l’italiano. Quando il treno si mosse, anche la folla dei tifosi si mosse per tenergli dietro. I portabandiera furono i più tenaci. Essi rincorsero il convoglio parecchio oltre i marciapiedi della stazione, e per poco non rimasero sotto un merci che sopravveniva.
L’ingegnere che sedeva davanti a me scosse la testa. "Li salutano", fece, "come astronauti che partono per il primo viaggio sulla luna!". "Proprio così", rispose con stizza l’avvocato che sedeva alla mia destra. "Eppoi ci si lamenta perché diventano 'divi'. Sfido io!". Ci fu una pausa. Poi l’anziano commendatore che da Roma taceva, profondamente immerso nelle parole incrociate, sospirò: "Non è più sport... No, non è più sport e ve lo dice uno che dello sport è stato un pioniere. Ho fondato tre società atletiche, signori miei: la 'Vigor', la 'Virtus' e la 'Libertas'. E non faccio per dire, ma quello era sport davvero. Sapete perché?". Fece una pausa per sottolineare la solennità della sua affermazione. "Perché al posto dei quattrini e della speculazione, c’erano la passione e il patriottismo". Ci guardò. Tutti ci guardammo. E approvammo con la testa, gravemente. Ma il commendatore non se ne contentò e riprese: "Ma la colpa non è degli atleti né degli organizzatori, credete a me". Ci fissò per vedere se aveva abbastanza stimolato la nostra curiosità per l’identificazione dei responsabili. E aggiunse: "La colpa è del pubblico che crea intorno alle società, e soprattutto a quelle di calcio, un clima malsano".
"Giusto", proruppe l’ingegnere ravvisando in quelle parole un’autorevole conferma della sua tesi, "giustissimo! È quello che ho sempre sostenuto coi miei amici dell’Inter come il Nanni B., con cui non si ragiona. Ragazzi miei, gli dico, voi credete di essere sportivi, a fischiare l’avversario, anche quando è bravo, e ad applaudire i vostri, anche quando sono scarponi. Perché io non me ne intendo alle partite non ci vado. Ma pare che proprio così succeda nei nostri stadi. Ora questo non solo non è sport, ma anzi la negazione dello sport...". "Parole d’oro", interruppe l’avvocato, "parole d’oro, caro ingegnere: la negazione dello sport. È quello che ho sempre detto anch’io; il tifo è la ne-ga-zio-ne dello sport. Ed è proprio per la nausea che mi fa il tifo che nemmeno io alle partite ci vado".
"Sì", ammise il mio vicino di sinistra fissandomi ostilmente, "però bisogna aggiungere che anche la stampa contribuisce...". Ma non potè terminare perché alla parola "stampa" si formò una unanimità di consensi che si tradusse in un assordante coro d’indignazione, di cui il commendatore riassunse il significato con la consueta autorevolezza: "Sì, la stampa ha delle responsabilità gravi, gravissime, decisive. Non soltanto nello sport, ma particolarmente nello sport, essa ha dimenticato la sua missione educatrice. Ed è naturale che quando manca il controllo di una stampa serena e oggettiva, gli altri, tutti gli altri, a cominciare dalla Lega...". "Buona quella!", tornò a insorgere il mio vicino di sinistra. "Io non so nemmeno chi ne sia il presidente, perché, ripeto, il calcio non lo seguo. Ma da quello che m’hanno detto...". "E non le hanno detto, caro ragioniere, ne sono sicuro, che un decimo o un centesimo di quello che succede", confermò l’avvocato. "Roba inaudita. Non posso, per ovvie ragioni, rivelare il nome di chi me lo ha confidato. Ma sono cose da codice penale, da galera. Come avvengono, per esempio, le designazioni degli arbitri...".
Alla parola "arbitri" si ripetè il fenomeno che si era verificato alla parola "stampa". E di nuovo il fondatore della "Vigor", della "Virtus" e della "Libertas" dovette intervenire per fornire un vocabolario e una sintassi al rotolante monosillabico minaccioso brontolio che si era levato in tutto lo scompartimento. "La questione degli arbitri", disse, "è una delle più gravi e forse quella decisiva. Lasciatevelo dire da uno che, nei suoi giovani anni, ha fatto l’arbitro, e ne porta ancora le tracce...". Curvò il capo sulle ginocchia, e aggiunse drammaticamente: "Guardate!". Su quel testone calvo il nostro sguardo inorridito colse infatti una lunga cicatrice.
"Busto Arsizio", ricordò con enfasi, "millenovecentoventisei: finale di campionato fra Pro Patria e Alessandria, e la Pro Patria perdeva per uno a zero. Allora non c’erano le reti, intorno al campo. Gli spettatori facevano ressa sulla linea del fallo laterale. Stavano immobili, il cappello sugli occhi, le mani dietro la schiena. Ma ogni volta che ci passavo vicino, mi sentivo soffiare negli orecchi questa parola: "Dopo!". E infatti "dopo"... dopo che la Pro Patria ebbe perso per due a uno...". Fece una pausa (era un maestro, nelle pause, il commendatore), si passò una mano sugli occhi e concluse: "Tre punti...". "Come, tre punti?", fece il ragioniere. "A quei tempi la classifica si faceva tre punti alla volta...". "No tre punti sulla ferita", rispose spazientito il fondatore. “Cosa volete? Appena mi nacque il primo figlio, smisi. E da allora, per me, il calcio è un libro chiuso. Ora ho sentito che vogliono porvi rimedio. Pare che il presidente della Commissione degli arbitri...".
"Glielo raccomando!", insorse vivacemente l’avvocato. "Glielo raccomando, quel presidente... Sa chi ci hanno messo? Bernardi... Ha capito?... Bravo, bravissimo, competente, tutto quello che vuole... Ma è come assegnare fin d’ora lo scudetto alla Juventus...". "Cosa c’entra la Juventus con Bernardi?", obiettò l’ingegnere aggrottando le ciglia. "Cosa c’entra!?", ribattè l’avvocato. "Ma se lo sanno anche le pietre che Bernardi non vede che la Juventus, non sente che la Juventus, non respira, e soprattutto non espira nel fischietto che per la Juventus, come del resto il novanta per cento degli arbitri italiani... Lo si è visto nel campionato scorso...". "Cosa si è visto nel campionato scorso?", interruppe l’ingegnere tendendogli contro l’indice. "Precisi, avvocato, cosa si è visto...". "Si è visto che si è voluto farglielo vincere a tutti i costi", sbottò l’avvocato. "Perché quando una squadra, ammesso che la Juventus sia una squadra, perché per conto mio non lo è...". L’ingegnere stavolta balzò in piedi. "Non lo è!? ... La Juventus non è una squadra!?", gridò, anzi gorgogliò nella strozza, e tutti ci aspettammo che si avventasse alla gola del suo interlocutore. Ma invece grazie a Dio la risolse in una risata, sia pure stridula.
"Sì, rida, rida pure!", fece l’avvocato del tutto inconscio del pericolo che aveva corso. "Ma a me, che le partite della Juventus le ho seguite tutte...". "E io no, vero?", sibilò l’ingegnere. "Anche quelle in trasferta, sa? E le posso dire che le poche volte che la nostra vecchia Juve è stata battuta, come per esempio a Firenze...". "Ah, no!", scattò il ragioniere, rosso in viso. "Questo non lo dica, ingegnere. Cioè lo dica pure, ma nell’altro senso. Non per due a uno doveva vincere la Fiorentina, ma per quattro a zero... Perché non faccio per vantarmi: ma noi, come squadra...". "Come squadra la Juve non c’è!", proclamò trionfalmente l’avvocato. "Come squadra, in Italia, non ce ne sono che due: la Fiorentina e il Milan!...".
"Un momento", fece il commendatore, "cerchiamo di capirci prima di litigarci. Se si ragiona per complessi di giocatori, bisogna riconoscere che la Juve ha un complesso di prim’ordine. Forse il migliore. Ma se si ragiona per squadre...", fece un’altra delle soliti magistrali pause, poi aggiunse con tranquilla sicurezza: "Se si ragiona per squadre, signori miei, non c’è più né Juve, né Fiorentina, né Milan che tengano di fronte al nostro vecchio Genoa...". A questa affermazione, che di colpo fece perdere al fondatore della "Vigor", della "Virtus" e della "Libertas" tutta l’autorità che si era guadagnata con i precedenti interventi e con l’esibizione delle sue gloriose ferite sul campo, si scatenò nello scompartimento un autentico putiferio che costrinse il bigliettaio ad accorrere per sedarlo. Ahimè costui era un pugliese e l’aveva indiscriminatamente con tutte le squadre del Nord, ree di aver fatto la "pastetta" in favore del Verona per tentare di impedire al Bari il ritorno in serie A. Sicché la zuffa, invece di calmarsi, si complicò, mescolandovisi anche la faccenda dei "terroni", della Cassa del Mezzogiorno.
In questa atmosfera di tensione, si giunse a Bologna, dove il commendatore scese senza salutare nessuno. Appena fu scomparso nel corridoio, dove il bigliettaio lo aveva preceduto, ci fu un silenzio, poi l’avvocato brontolò, traendo un incartamento dalla borsa: "Il Genoa!...". L’ingegnere ridacchiò, il ragioniere rise, poi risero tutti e tre insieme, e di colpo, su quella risata, ricostituirono la loro solidarietà. "Il Genoa!...", ripetè uno. "Il Genoa di trent’anni fa!...", precisò sardonicamente un altro. "E il Bari, avete sentito?", aggiunse il terzo. E di nuovo risero, stavolta a gola spiegata e allegramente. "Eppoi si vuole negare", fece l’ingegnere, "che sia il tifoso ad avvelenare lo sport... Quando c’è gente, perdio, disposta a sostenerti che un Genoa o un Bari, le quali non dovrebbero neanche militare in serie A, meritano lo scudetto più della Juve, del Milan o della Fiorentina, ma cosa ci si viene a parlare di sportività... Questo è settarismo, cioè la negazione della sportività... La ne-ga-zio-ne...".

 

 

Genoa, 5 gennaio 2008