Dapprincipio, quando il treno era entrato in stazione a vedere
quell'assembramento sulla banchina avevamo pensato che si trattasse d’un
ministro; di Tambroni, per esempio, col suo codazzo di prefetti, o di
Preti visto che ci si trovava nella zona di Giuffrè. Ma l’animazione era
troppo festosa. Forse c’era di mezzo una diva cinematografica o qualche
eroina di "Lascia o raddoppia".
Ma poi, prima ancora di veder le facce, capimmo dalle bandiere e dai
cartelloni che un corteo di giovanotti faceva svettare sulle proprie
teste: era la locale squadra di calcio, che si avviava alla prima
partita di campionato in trasferta.
Più che salire, gli undici atleti, le riserve e gli accompagnatori (un
paio di dozzine di persone in tutto), vennero issati sullo
scompartimento accanto a quello nostro, e immediatamente evocati ai
finestrini dove affacciarono le loro teste dalle chiome accuratamente
pettinate. Avevano già la stilografica in mano per autografare le
cartoline che gli ammiratori porgevano. A uno, una ragazza scalmanata
gridò: "Bruno me lo fai un gol". A un altro biondino, un signore
anzianotto e distintissimo, che sarebbe stato molto bene sulla poltrona
di consigliere delegato di qualche grande azienda (e forse di regola ci
sta) disse solennemente: "L’onore dei nostri colori cittadini è affidato
soprattutto a lei". Il biondino fece un sorriso ebete.
Poi si seppe ch’era uno svedese che non sapeva ancora l’italiano. Quando
il treno si mosse, anche la folla dei tifosi si mosse per tenergli
dietro. I portabandiera furono i più tenaci. Essi rincorsero il
convoglio parecchio oltre i marciapiedi della stazione, e per poco non
rimasero sotto un merci che sopravveniva.
L’ingegnere che sedeva davanti a me scosse la testa. "Li salutano",
fece, "come astronauti che partono per il primo viaggio sulla luna!".
"Proprio così", rispose con stizza l’avvocato che sedeva alla mia
destra. "Eppoi ci si lamenta perché diventano 'divi'. Sfido io!". Ci fu
una pausa. Poi l’anziano commendatore che da Roma taceva, profondamente
immerso nelle parole incrociate, sospirò: "Non è più sport... No, non è
più sport e ve lo dice uno che dello sport è stato un pioniere. Ho
fondato tre società atletiche, signori miei: la 'Vigor', la 'Virtus' e
la 'Libertas'. E non faccio per dire, ma quello era sport davvero.
Sapete perché?". Fece una pausa per sottolineare la solennità della sua
affermazione. "Perché al posto dei quattrini e della speculazione,
c’erano la passione e il patriottismo". Ci guardò. Tutti ci guardammo. E
approvammo con la testa, gravemente. Ma il commendatore non se ne
contentò e riprese: "Ma la colpa non è degli atleti né degli
organizzatori, credete a me". Ci fissò per vedere se aveva abbastanza
stimolato la nostra curiosità per l’identificazione dei responsabili. E
aggiunse: "La colpa è del pubblico che crea intorno alle società, e
soprattutto a quelle di calcio, un clima malsano".
"Giusto", proruppe l’ingegnere ravvisando in quelle parole un’autorevole
conferma della sua tesi, "giustissimo! È quello che ho sempre sostenuto
coi miei amici dell’Inter come il Nanni B., con cui non si ragiona.
Ragazzi miei, gli dico, voi credete di essere sportivi, a fischiare
l’avversario, anche quando è bravo, e ad applaudire i vostri, anche
quando sono scarponi. Perché io non me ne intendo alle partite non ci
vado. Ma pare che proprio così succeda nei nostri stadi. Ora questo non
solo non è sport, ma anzi la negazione dello sport...". "Parole d’oro",
interruppe l’avvocato, "parole d’oro, caro ingegnere: la negazione dello
sport. È quello che ho sempre detto anch’io; il tifo è la ne-ga-zio-ne
dello sport. Ed è proprio per la nausea che mi fa il tifo che nemmeno io
alle partite ci vado".
"Sì", ammise il mio vicino di sinistra fissandomi ostilmente, "però
bisogna aggiungere che anche la stampa contribuisce...". Ma non potè
terminare perché alla parola "stampa" si formò una unanimità di consensi
che si tradusse in un assordante coro d’indignazione, di cui il
commendatore riassunse il significato con la consueta autorevolezza:
"Sì, la stampa ha delle responsabilità gravi, gravissime, decisive. Non
soltanto nello sport, ma particolarmente nello sport, essa ha
dimenticato la sua missione educatrice. Ed è naturale che quando manca
il controllo di una stampa serena e oggettiva, gli altri, tutti gli
altri, a cominciare dalla Lega...". "Buona quella!", tornò a insorgere
il mio vicino di sinistra. "Io non so nemmeno chi ne sia il presidente,
perché, ripeto, il calcio non lo seguo. Ma da quello che m’hanno
detto...". "E non le hanno detto, caro ragioniere, ne sono sicuro, che
un decimo o un centesimo di quello che succede", confermò l’avvocato.
"Roba inaudita. Non posso, per ovvie ragioni, rivelare il nome di chi me
lo ha confidato. Ma sono cose da codice penale, da galera. Come
avvengono, per esempio, le designazioni degli arbitri...".
Alla parola "arbitri" si ripetè il fenomeno che si era verificato alla
parola "stampa". E di nuovo il fondatore della "Vigor", della "Virtus" e
della "Libertas" dovette intervenire per fornire un vocabolario e una
sintassi al rotolante monosillabico minaccioso brontolio che si era
levato in tutto lo scompartimento. "La questione degli arbitri", disse,
"è una delle più gravi e forse quella decisiva. Lasciatevelo dire da uno
che, nei suoi giovani anni, ha fatto l’arbitro, e ne porta ancora le
tracce...". Curvò il capo sulle ginocchia, e aggiunse drammaticamente:
"Guardate!". Su quel testone calvo il nostro sguardo inorridito colse
infatti una lunga cicatrice.
"Busto Arsizio", ricordò con enfasi, "millenovecentoventisei: finale di
campionato fra Pro Patria e Alessandria, e la Pro Patria perdeva per uno
a zero. Allora non c’erano le reti, intorno al campo. Gli spettatori
facevano ressa sulla linea del fallo laterale. Stavano immobili, il
cappello sugli occhi, le mani dietro la schiena. Ma ogni volta che ci
passavo vicino, mi sentivo soffiare negli orecchi questa parola:
"Dopo!". E infatti "dopo"... dopo che la Pro Patria ebbe perso per due a
uno...". Fece una pausa (era un maestro, nelle pause, il commendatore),
si passò una mano sugli occhi e concluse: "Tre punti...". "Come, tre
punti?", fece il ragioniere. "A quei tempi la classifica si faceva tre
punti alla volta...". "No tre punti sulla ferita", rispose spazientito
il fondatore. “Cosa volete? Appena mi nacque il primo figlio, smisi. E
da allora, per me, il calcio è un libro chiuso. Ora ho sentito che
vogliono porvi rimedio. Pare che il presidente della Commissione degli
arbitri...".
"Glielo raccomando!", insorse vivacemente l’avvocato. "Glielo
raccomando, quel presidente... Sa chi ci hanno messo? Bernardi... Ha
capito?... Bravo, bravissimo, competente, tutto quello che vuole... Ma è
come assegnare fin d’ora lo scudetto alla Juventus...". "Cosa c’entra la
Juventus con Bernardi?", obiettò l’ingegnere aggrottando le ciglia.
"Cosa c’entra!?", ribattè l’avvocato. "Ma se lo sanno anche le pietre
che Bernardi non vede che la Juventus, non sente che la Juventus, non
respira, e soprattutto non espira nel fischietto che per la Juventus,
come del resto il novanta per cento degli arbitri italiani... Lo si è
visto nel campionato scorso...". "Cosa si è visto nel campionato
scorso?", interruppe l’ingegnere tendendogli contro l’indice. "Precisi,
avvocato, cosa si è visto...". "Si è visto che si è voluto farglielo
vincere a tutti i costi", sbottò l’avvocato. "Perché quando una squadra,
ammesso che la Juventus sia una squadra, perché per conto mio non lo
è...". L’ingegnere stavolta balzò in piedi. "Non lo è!? ... La Juventus
non è una squadra!?", gridò, anzi gorgogliò nella strozza, e tutti ci
aspettammo che si avventasse alla gola del suo interlocutore. Ma invece
grazie a Dio la risolse in una risata, sia pure stridula.
"Sì, rida, rida pure!", fece l’avvocato del tutto inconscio del pericolo
che aveva corso. "Ma a me, che le partite della Juventus le ho seguite
tutte...". "E io no, vero?", sibilò l’ingegnere. "Anche quelle in
trasferta, sa? E le posso dire che le poche volte che la nostra vecchia
Juve è stata battuta, come per esempio a Firenze...". "Ah, no!", scattò
il ragioniere, rosso in viso. "Questo non lo dica, ingegnere. Cioè lo
dica pure, ma nell’altro senso. Non per due a uno doveva vincere la
Fiorentina, ma per quattro a zero... Perché non faccio per vantarmi: ma
noi, come squadra...". "Come squadra la Juve non c’è!", proclamò
trionfalmente l’avvocato. "Come squadra, in Italia, non ce ne sono che
due: la Fiorentina e il Milan!...".
"Un momento", fece il commendatore, "cerchiamo di capirci prima di
litigarci. Se si ragiona per complessi di giocatori, bisogna riconoscere
che la Juve ha un complesso di prim’ordine. Forse il migliore. Ma se si
ragiona per squadre...", fece un’altra delle soliti magistrali pause,
poi aggiunse con tranquilla sicurezza: "Se si ragiona per squadre,
signori miei, non c’è più né Juve, né Fiorentina, né Milan che tengano
di fronte al nostro vecchio Genoa...". A questa affermazione, che di
colpo fece perdere al fondatore della "Vigor", della "Virtus" e della
"Libertas" tutta l’autorità che si era guadagnata con i precedenti
interventi e con l’esibizione delle sue gloriose ferite sul campo, si
scatenò nello scompartimento un autentico putiferio che costrinse il
bigliettaio ad accorrere per sedarlo. Ahimè costui era un pugliese e
l’aveva indiscriminatamente con tutte le squadre del Nord, ree di aver
fatto la "pastetta" in favore del Verona per tentare di impedire al Bari
il ritorno in serie A. Sicché la zuffa, invece di calmarsi, si complicò,
mescolandovisi anche la faccenda dei "terroni", della Cassa del Mezzogiorno.
In questa atmosfera di tensione, si giunse a Bologna, dove il
commendatore scese senza salutare nessuno. Appena fu scomparso nel
corridoio, dove il bigliettaio lo aveva preceduto, ci fu un silenzio,
poi l’avvocato brontolò, traendo un incartamento dalla borsa: "Il
Genoa!...". L’ingegnere ridacchiò, il ragioniere rise, poi risero tutti
e tre insieme, e di colpo, su quella risata, ricostituirono la loro
solidarietà. "Il Genoa!...", ripetè uno. "Il Genoa di trent’anni
fa!...", precisò sardonicamente un altro. "E il Bari, avete sentito?",
aggiunse il terzo. E di nuovo risero, stavolta a gola spiegata e
allegramente. "Eppoi si vuole negare", fece l’ingegnere, "che sia il
tifoso ad avvelenare lo sport... Quando c’è gente, perdio, disposta a
sostenerti che un Genoa o un Bari, le quali non dovrebbero neanche
militare in serie A, meritano lo scudetto più della Juve, del Milan o
della Fiorentina, ma cosa ci si viene a parlare di sportività... Questo
è settarismo, cioè la negazione della sportività... La ne-ga-zio-ne...".
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